Mar 26, 2009
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Caro Angelo, il Kosovo è una patata bollente

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“Hai scritto in poche righe tutto quello che ci siamo detti in questo ultimo anno”. Ma Angelo non potrà mai pubblicare questa lettera sul foglio militare che dirige. Va da sé che non lo potrà fare, per evitare il rischio di strigliata non solo per lui ma anche per i suoi militari che lo accompagneranno nella prossima missione in Kosovo.

Io la pubblico qui con la sua autorizzazione, prendendo occasione dal decimo anniversario dell’inizio dei bombardamenti Nato sulla Serbia (24 marzo 1999) e dalle recenti controverse questioni legate all’annuncio del ritiro dei militari spagnoli dal Kosovo.

Caro Angelo,

ci sono momenti in cui il giornalista si deve fare da parte e lasciare spazio alla soggettività. E questo è proprio uno di quei momenti. Perché non si può essere obiettivi quando mi chiedi un pezzo a pochi giorni dalla chiusura del numero del […] scatenandomi tutto un vissuto di emozioni professionali altissime. Proprio quando la brigata sta per partire di nuovo per il tranquillo e insignificante Kosovo (il perché sia tranquillo e insignificante te lo spiego dopo).

Non si può essere ostinatamente obiettivi, dicevo, quando in Kosovo ci si va anche al di fuori dagli accrediti ufficiali e si alloggia dalle monache o si seminano le guardie del corpo di qualche influente politico o, più semplicemente, si portano i saluti dall’Italia sotto forma di cioccolatini e biscotti.

Un anno fa, quando su esplicita richiesta ho testimoniato in Italia la situazione di annuale tentennamento pre e durante dichiarazione di indipendenza del Kosovo – con annesso glaciale atteggiamento di fermezza della Serbia, visto che rientravo da Belgrado – sono stata bollata come filo-serba. E, naturalmente, allontanata dalla conferenza organizzata da una associazione di sinistra della mia città. Esattamente quella sinistra che quando occorre sfoggia l’antiamericanismo di facciata, ma che poi nell’indugio si rifugia sotto le gonne di nonna America per farsi difendere. Come fare a essere obiettivi se volendo comprare una splendida copia finemente decorata del Corano in centro a Pec/Peja si viene convinti a desistere da una improvvisa serrata con tanto di fuggi fuggi di uomini barbuti in motorino. Che dire, sembrerebbe che il dettato deontologico dell’Ordine riguardo all’obiettività imponga in questo caso le sofferenze di un cilicio.

Ancora: nel 2003 ragionavo con l’ausilio di fonti aperte su come la situazione stesse prendendo una piega alquanto sospetta. Armi ai paramilitari fornite da potenti nazioni europee interessate a mantenere il dominio sul Kosovo, legami transfrontalieri con gruppi aggressivi e senza scrupoli, diaspora incontrastabile nel cuore della Svizzera erano elementi che affioravano sempre più dall’inconscio del Kosovo. Le mail che mi arrivarono allora erano facili e scontate offese al mio status femminile.

Nel 2004 raccontavo dell’impegno dei soldati italiani e dell’idea di un comandante di definire zone protette intorno ai monasteri. Risultato: sei un pelino oltre, diciamo che non stai nel mucchio, ecco. Perché – tanto per cominciare – non si può parlare di enclave serbe ma bisogna trovare un’altra parola, magari più soft. Come si dice, di grazia: ghetto? Prigione? Campo profughi? E il comandante, che sei anni fa a Prizren mi regalava la sua medaglia della missione con tanto di brindisi e cena, mi tolse poi il saluto (l’ho visto di recente, tra le poltroncine morbide di una ovattata aula magna in un cinquecentesco palazzo sul Lungotevere: con un rapido sguardo ci siamo riconosciuti e ci siamo lasciati).

Dal 2005 a oggi riporto di tanto in tanto ciò che mi sembra più significativo in una nebbia di indifferenza, come l’isolamento progressivo a cui vengono condannati quegli internazionali di Unmik troppo onestamente dediti al loro lavoro. O come il revisionismo artistico prima che storico stia ridefinendo un’intera provincia. Nell’indifferenza del più classico laissez faire laissez passer mi sono beccata una svista dei poligrafici di un periodico militare che hanno pubblicato un mio articolo corredato da una cartina del Kosovo con la singola toponomastica albanese! Alla faccia del politicamente corretto.

E io dovrei essere obiettiva. Dovrei esserlo anche dopo aver evitato con tutte le forze, ma con successo, di dormire dall’imam venuto dall’Albania e passato dal Cairo che mi aveva concesso un’intervista nel cuore del Kosovo innevato. Ma che in cambio voleva ospitarmi per quella notte così come faceva con gli amici che venivano da lontano (e certo non si tratta di amici con cui divertirsi al tavolo verde). Come posso, Angelo? Il Kosovo indipendente è uno schiaffo al diritto internazionale, una linguaccia tirata al concetto di sovranità degli stati, una bugia raccontata agli ossetani. Ma anche un sassolino da togliersi al più presto dalla scarpa.

Prova ne è la fretta del comandante della missione Kfor nello svelare i piani di ridimensionamento degli uomini Nato laggiù. La smentita del portavoce dell’Alleanza è arrivata a stretto giro, d’accordo, ma ormai la frittata è fatta: il Kosovo è una patata bollente, meglio liberarsene prima di doversela sbucciare con le proprie mani. In questo periodo di tranquillità i britannici hanno annunciato, loro sì unanimemente e ufficialmente, il ritiro entro l’estate. Meglio andarsene prima che ci si accorga di quanto inutile sia stata ai più questa campagna, risultata un affare quasi solo per i tedeschi storicamente interessati a tenere il controllo sui Balcani (per gli americani era scontato, sempre per gli stessi motivi storici).

Ormai ci sono i poliziotti albanesi della Kosovo Police a fare la guardia ai monasteri serbi, ormai la legittimazione dell’ex Tmk/ex Kla (il noto Uck) è avvenuta. Grazie agli impegni presi dalle nazioni Nato, Spagna esclusa, nell’addestrare ed equipaggiare questi convinti sostenitori non tanto dell’indipendenza del paese quanto piuttosto dell’autonomia degli affari. Business is business, non importa se sei albanese perché se mi metti i bastoni tra le ruote sparisci anche tu. E l’area ovest del Kosovo è una testimonianza alla portata di tutti dei modi sbrigativi del Kla.

Non occorre essere giornalisti per andarsela a vedere, tanto meno giornalisti di guerra visto che in Kosovo non c’è guerra da dieci anni. Solo una effimera e fasulla tranquillità per gli ingenui. Quanto poi al fatto che il Kosovo sia insignificante è chiaro: ai media non interessa fino a quando non ci saranno di nuovo petardi lanciati sul ponte dell’Ibar o incendi appiccati allo Yu Program. Neppure l’intervista all’imam è interessata alla stampa periodica italiana. Se la sono presa gli americani, che non hanno in mente sempre e solo le sollevazioni parlamentari come mèta finale delle loro pubblicazioni.

Come essere obiettiva, Angelo, visto che vi vedo partire al servizio di uno stato che politicamente ha già deciso da che parte stare dieci anni fa. Il Kosovo tornerà a essere il contrario di tranquillo e insignificante solo quando le truppe Nato se ne saranno andate, lasciava bene intendere l’imam. Ma a quel punto la brigata sarà impegnata su altri fronti. Ora concludo la mia parentesi di soggettività e ti lascio la responsabilità di scegliere se pubblicarmi, tu che sei il direttore del […]. Ma se lo fai non amputarmi il pezzo di una riga: sono una giornalista obiettiva, lo sai.

Paola Casoli

Varese, 11 marzo 2009

Articolo correlato:

Terror & Gratitude: Albanian Imam’s Kosovo Mission (29 dicembre 2007)

Foto: informazione.it

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Forze Armate · Kosovo · tales

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