La sua foto era dappertutto. E spesso si trattava di un ritratto formato poster appeso nel bel mezzo della parete: dietro le reception degli hotel, dietro il bancone dei bar, negli stabilimenti balneari della costa slava.
Il maresciallo Tito, all’anagrafe Josip Broz, era onnipresente in tutta la Jugoslavia del dopoguerra. E soprattutto negli anni Settanta, da quando cioè divenne presidente a vita della Repubblica Federale Socialista della Jugoslavia (Sfrj).
Ieri 4 maggio era il ventottesimo anniversario della sua morte.
Viene ricordato come un dittatore, un despota, uno sterminatore di italiani in Istria. Ha saputo mantenere la Jugoslavia in una posizione intermedia tra l’Occidente e l’allora blocco sovietico resistendo a pressioni opposte. Ha goduto della sua vita fino in fondo e senza censure. I nostalgici dicono di lui sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito.
A dieci anni dalla sua morte iniziarono a concretizzarsi i separatismi che determinarono l’attuale situazione geopolitica balcanica.
A chi piaceva Tito? Difficile dirlo senza cadere nelle categorie della retorica. Ma è certo che ancora oggi c’è chi lo ricorda con trasporto (la foto presa da B92 ritrae macedoni ieri a Belgrado davanti alla sua tomba): “se fosse ancora qui non dovremmo riunirci per cercare sicurezza”, diceva un albanese cattolico nella musulmana Klina intervistato lo scorso mese di dicembre all’interno della sua casa compound (una fattoria fortificata che riunisce un intero clan secondo l’uso dell’etnia albanese in Kosovo).
E a una trentina di chilometri di distanza un serbo ortodosso che vive nella enclave di Goradzevac gli faceva eco così: “Se fosse vivo, noi oggi potremmo ancora lavorare tutti insieme nella fabbrica della birra di Pec”.
Fonte: B92, Wikipedia, materiale proprio
Foto: B92, Osservatorio Balcani