Set 5, 2014
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L’ascesa cinese in Asia Centrale/6, V.Mentesana – Le politiche di Pechino nello Xinjiang

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By Valentina Mentesana

Cap 3 della tesi L’ascesa cinese in Asia Centrale, di Annalisa Boccalon, Valentina Mentesana, Agnese Sollero

Le politiche di Pechino nella regione [dello Xinjiang]

L’inizio dello sviluppo economico della regione va fatto risalire quantomeno al 1985, anno in cui il governo di Pechino, per poter riequilibrare la situazione economica tra province orientali, aperte al commercio marittimo, e province occidentali, tendenzialmente svantaggiate dalla posizione continentale, aprì i confini occidentali al commercio creando, così, nuove opportunità per i cittadini cinesi.

Furono predisposti investimenti infrastrutturali e si investì in modo massiccio nel settore dell’educazione per formare coloro, gli uiguri, che venivano considerati dal governo di Pechino come bisognosi di ricevere un’educazione.

Nel 2000 il governo di Pechino lanciò Develop the West, un programma quinquennale che prevedeva lo stanziamento di sette miliardi di dollari statunitensi con lo scopo di integrare maggiormente le regioni occidentali nell’economia cinese e di assimilarne la popolazione all’interno della comunità dei cittadini eguali di uno Stato multietnico governato da Pechino.

In seguito all’avvio del programma e al trasferimento di fondi, milioni di lavoratori di etnia Han si trasferirono nello Xinjiang per lavorare alla costruzione di strade e infrastrutture.

Si trattava dei cosiddetti self drifters, migranti volontari che si trasferivano in cerca di migliori condizioni di vita.

Questa migrazione volontaria fu rafforzata dalla cosiddetta politica di Hanizzazione posta in essere da Pechino nello Xinjiang simultaneamente all’implementazione del programma Develop the West.

Si trattava di elargire incentivi agli Han che decidevano volontariamente di trasferirsi a ovest.

Pechino, infatti, offriva a questi self drifters abitazioni e livelli di retribuzione più elevati rispetto ai salari medi locali.

Stando al punto di vista cinese, lo Xinjiang fu così interessato da uno sviluppo economico pressoché uniforme nel XX secolo, sviluppo incentivato dalla presenza di giacimenti di petrolio e gas. Molti dei cambiamenti introdotti nella regione possono e devono essere visti come delle innovazioni positive per cui, secondo Pechino, è incomprensibile considerare tale programma come un problema.

Il rapido sviluppo economico della regione, infatti, avrebbe creato un notevole aumento della ricchezza pro capite tanto che oggi la regione è la dodicesima proprio per il livello del PIL pro capite. In uno Stato in cui è ancora forte l’incidenza della povertà sulle masse rurali, lo Xinjiang risulta essere la terza provincia per equità di redditi tra popolazione rurale e urbana, si tratta, quindi, di una delle province in cui è meno evidente la disparità di reddito tra campagne e città.

La capitale dello Xinjiang, Urumchi, è l’emblema delle boom town cinesi, caratterizzata da alti grattacieli  simboleggianti il boom economico e, in qualche modo, il presunto raggiungimento dello standard di vita statunitense (il grattacielo è ormai diventato celebrazione dello sviluppo tecnologico e della ricchezza. Per questo motivo in molti Paesi dell’Estremo Oriente si è diffusa la tendenza a costruire questi enormi edifici, strumenti di ostentazione del progresso economico).

Pechino, quindi, celebra questo sviluppo della regione annoverandolo tra i meriti dell’amministrazione del Partito Comunista Cinese. Per quanto riguarda l’aspetto educativo, il governo centrale considerava la popolazione uigura come arretrata e rientrava, quindi, tra i suoi obiettivi la civilizzazione e la modernizzazione di tale comunità.

In merito all’urbanizzazione, i migranti Han non avrebbero sfollato i vecchi abitanti uiguri, né tanto meno avrebbero sovrastato la loro cultura. Il governo di Pechino continua a ribadire, per altro, come la Repubblica Popolare Cinese sia uno Stato multietnico all’interno del quale vige l’assoluta libertà di movimento. Infine, per quanto riguarda la presunta discriminazione nell’assunzione di uiguri, le autorità di Pechino temono che questi, una volta assunti tra i quadri, possano fungere da cavallo di Troia per minare dall’interno i ranghi dell’amministrazione centrale.

Il timore è fondato in quanto sono molto forti i legami tra la comunità uigura dello Xinjiang e quelli della diaspora che non mancano di offrire appoggio materiale e spirituale ai primi. Inoltre, è molto forte l’influenza dell’Arabia Saudita, che invia piccole armi in territorio cinese, così come quella del Pakistan, che diffonde pamphlet a carattere religioso nelle città accessibili attraverso il passo del Kunjerab.

Va ricordato, inoltre, che alcuni uiguri dello Xinjiang hanno combattuto al fianco di Al Qaeda in Afghanistan. In virtù di questi elementi è giustificabile, agli occhi di Pechino, la fermezza e la severità con cui si concretizza l’azione del governo centrale nella regione.

Gli uiguri oppongono una visione critica all’ottimismo di Pechino e ritengono che lo sviluppo economico abbia marginalizzato il loro gruppo etnico minacciandone la stessa sopravvivenza.

Gli uiguri enfatizzano i lati oscuri di questo sviluppo e ogni innovazione introdotta dal governo centrale viene considerata un passo ulteriore verso la marginalizzazione degli uiguri come gruppo nella loro terra natale. Essi imputano al governo centrale anche una sorta di discriminazione economica nei loro confronti. A loro modo di vedere, infatti, è rinvenibile un’ineguale suddivisione della ricchezza tra uiguri e Han in quanto sono stati proprio questi ultimi quelli maggiormente coinvolti nei progetti di sviluppo economico della regione.

Gli Han, infatti, ricoprono approssimativamente i 4/5 dei posti di lavoro nel settore manifatturiero, nel settore energetico, in quello dei trasporti, delle comunicazioni e dello sviluppo tecnologico e i 9/10 dei posti di lavoro nel settore delle costruzioni.

Stessa annotazione va fatta per i benefici derivanti dall’apertura delle frontiere occidentali al commercio. Gli uiguri sono stati fin dai primi anni ‘90 i dominatori delle vie del commercio tra Cina, Kazakistan e Kirghizistan. Attualmente, invece, stanno perdendo terreno a favore dei commercianti Han che hanno già stabilito dei propri agenti permanenti nei principali centri di Almaty (Kazakistan), Bishkek (Kirghizistan), Osh (Kirghizistan) e Tashkent (Uzbekistan).

Ovviamente nemmeno il Partito Comunista Cinese è esente da critiche. I cittadini turchi dello Xinjiang sono tendenzialmente esclusi dai ruoli dirigenziali entro il Partito. I tassi di disoccupazione che si registrano nella regione mostrano una netta divergenza tra i tassi riferiti alla popolazione Han e quelli riferiti ad uiguri, kazaki e kirghizi.

Si tratta di una discrepanza che in altre regioni è mitigata dallo sviluppo del settore privato che, tendenzialmente, non opera discriminazioni etniche così marcate. Ricordiamo, infatti, che nello Xinjiang l’economia è strettamente connessa all’impiego statale tanto che spesso i cinesi si riferiscono a questa regione come all’ultimo bastione del socialismo di Stato.

Un’altra argomentazione proposta dalla comunità uigura come critica all’operato di Pechino riguarda la redistribuzione degli introiti derivanti dallo sfruttamento delle risorse energetiche dello Xinjiang.

Sembrerebbe, infatti, che la parte della ricchezza reindirizzata a Pechino serva a sostenere progetti che in futuro potrebbero minacciare le terre e l’ambiente dello Xinjiang.

Anche per quanto riguarda il settore educativo, indubbiamente implementato grazie alla diffusione capillare di edifici scolastici costruiti grazie ai fondi stanziati dal programma Develop the West, non sono mancate le critiche da parte della comunità uigura che ha considerato la riorganizzazione operata da Pechino come un attacco frontale nei propri confronti.

Sebbene non si possa negare, infatti, che anche gli uiguri abbiano beneficiato dell’estensione dell’educazione, va tenuto in considerazione un aspetto non di secondaria importanza: la lingua d’insegnamento.

Dal maggio 2002 nelle nuove scuole cinesi dello Xinjiang l’insegnamento è impartito in lingua cinese e non viene tenuto conto della volontà della comunità uigura di mantenere vivo l’insegnamento della loro lingua. Accade, quindi, che le famiglie uigure in cui ci sono un figlio maschio e una figlia femmina scelgano di far frequentare le scuole cinesi ai figli maschi, che dovranno poi integrarsi nel tessuto produttivo dello Xinjiang, e le scuole uigure o kazake alle figlie femmine che avranno l’onere, invece, di trasmettere alle generazioni future la cultura tradizionale uigura.

Questa scelta, ovviamente, incide negativamente sul gap di genere per quando riguarda la formazione. La critica uigura prosegue, poi, elencando i danni provocati dall’ingerenza di Pechino nei settori tradizionali dell’economia dello Xinjiang.

Secondo gli uiguri, infatti, l’impegno profuso per l’intensificazione delle monocolture di cotone e l’inefficienza dell’agricoltura Han starebbe prosciugando le oasi acquifere non rinnovabili del sud della regione.

Se continuerà così, gli uiguri temono che l’agricoltura, alla base della loro civilizzazione, possa morire. L’esaurimento delle riserve d’acqua sta, inoltre, favorendo l’espansione dei fenomeni di desertificazione. Dal punto di vista dell’urbanistica, infine, la presenza dei grattacieli non farebbe che sottolineare l’umiliazione etnico-religiosa da loro subita per mano dell’etnia Han.

Dal punto di vista dell’azione sono rinvenibili almeno tre tendenze all’interno della comunità uigura:

assimilazionisti

autonomisti

separatisti

Gli assimilazionisti attualmente rappresentano una minima percentuale della popolazione. Si tratta di individui che mirano a mantenere il loro ruolo di cittadini eguali all’interno di un grande Stato multietnico cinese per questo tentano di rivolgersi direttamente alle istituzioni.

Gli autonomisti, invece, sono individui fortemente impegnati nella preservazione dell’identità, della cultura e della tradizioni uigure, e sono convinti che questi obiettivi possano essere raggiunti soltanto attraverso la concessione alla regione di un significativo livello di autonomia. Ritengono, quindi, che sia importante concretizzare ciò che è formalmente già scritto in Costituzione ponendo l’accento sull’autodeterminazione. Gli autonomisti chiedono di porre i flussi di migrazione Han sotto il controllo uiguro e di avere maggior voce in capitolo nello sfruttamento delle risorse naturali della regione. Si tratta di obiettivi raggiungibili attraverso un processo più aperto e democratico di amministrazione dello Xinjiang.

Infine, i separatisti, hanno gli stessi obiettivi degli autonomisti ma sono convinti che tali obiettivi siano raggiungibili solo attraverso una piena separazione politica della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang dalla Repubblica Popolare Cinese.

Le loro attività ricevono il sostegno economico delle comunità uigure sparse nel mondo e residenti soprattutto in Turchia, Germania, Stati Uniti e Asia Centrale. I separatisti sono a loro volta suddivisi al loro interno tra chi opera con metodi violenti per perseguire lo scopo condiviso e chi lo fa con metodi pacifici, solitamente, questi ultimi, individui di elevata formazione e figli di uiguri assimilazionisti.

Tra coloro che scelgono la via della violenza è invalso l’uso degli strumenti del terrorismo politico che continua a provocare vittime e distruzione di proprietà statali. Chi appartiene alla frangia violenta dei separatisti non è riconducibile ad un’unica grande organizzazione, ma, al contrario, può far parte dei cosiddetti “separatisti secolari”, il cui unico obiettivo è la creazione di uno Stato indipendente, ovvero degli “attivisti religiosi” che vorrebbero imporre anche una legislazione islamica in quanto, nella loro visione, lo Xinjiang è parte della umma islamica.

Tra i gruppi militanti separatisti che operano nello Xinjiang si ricordano il Partito Islamico del Turkestan dell’Est, il Movimento Islamico del Turkestan dell’Est, il Partito di Allah del Turkestan dell’Est e i Guerrieri Islamici.

Si tratta di gruppi di recente islamizzazione che praticano la violenza in nome dell’islam ricevendo fondi dall’Arabia Saudita, dai Paesi del Golfo e da altri Stati del Medio Oriente. Alcuni di loro hanno legami con organizzazioni simili stanziate in Afghanistan, Pakistan, Turchia, Uzbekistan e Kirghizistan.

Attualmente non sono disponibili dati precisi circa i numeri di individui che fanno parte di queste organizzazioni perché le indagini su questa tematica non possono essere condotte nello Xinjiang. Tuttavia, benché non ci siano cifre ufficiali, secondo alcune stime sembrerebbe che il numero di separatisti religiosi sia notevolmente aumentato negli ultimi cinque anni.

Va ribadito che se anche lo Stato centrale riuscisse a sradicare le idee separatiste ciò non condurrebbe a un’automatica vittoria anche nei confronti degli autonomisti. Inoltre, è difficile approntare una strategia complessiva efficace per contrastare questi dissidenti in quanto il numero dei membri di ogni categoria varia costantemente come reazione al mutamento delle condizioni di vita della comunità uigura nello Xinjiang. È credibile pensare, quindi, che un miglioramento del trattamento degli uiguri potrebbe fornire la spinta necessaria per far accettare l’assimilazione.

Al contrario, un peggioramento delle loro condizioni di vita ridurrebbe alcuni di loro alla disperazione circa la possibilità di ottenere l’autonomia e potrebbe indurli a votarsi al separatismo.

In conclusione, l’obiettivo primario delle iniziative di Pechino è l’assimilazione degli uiguri nella società cinese. Per perseguire tale scopo il governo centrale sta cercando di eliminare ogni minaccia interna o esterna al controllo cinese sul territorio dello Xinjiang e di conseguenza alla sovranità cinese e all’integrità territoriale. Pechino agisce, quindi, su un duplice fronte: nell’ambito della politica interna insiste sul programma Develop the West continuando a non porre limiti alla migrazione Han, sul fronte della politica estera è in atto uno sforzo per la neutralizzazione e l’eliminazione delle forze esterne che possono minacciare il controllo dello Xinjiang e il suo sviluppo.

Alcuni episodi di violenza

Nel luglio 1995 le autorità governative arrestarono un imam moderato a Khotan. La notizia si sparse quando i fedeli si radunarono per la preghiera del venerdì e, a quel punto, decisero di scendere in piazza.

La polizia represse con violenza la manifestazione provocando molte vittime.

Nel febbraio 1997 i giovani di Gulcha incominciarono a riunirsi pacificamente con l’obiettivo di lanciare un programma contro l’abuso di droga e alcol. Il governo centrale etichettò il movimento come “fanatismo religioso” e nel confronto fisico che ne seguì si registrarono diverse centinaia di morti.

Nel 1998 il governo di Pechino lanciò la campagna “Colpisci forte! Massima pressione!” poi intensificata a partire dal 2001. Si trattava di attuare massicci arresti di massa, esecuzioni e di imporre restrizioni per le organizzazioni religiose e non.

Lo scopo era quello di sopprimere l’opposizione uigura e per fare questo non si esitò a usare anche gli strumenti della tortura e della restrizione dei diritti umani. Pechino inviò 15.000 dipendenti non militari per sostenere questo sforzo, ma l’unico risultato fu la transizione della protesta dalla pubblica piazza alla piazza informatica. Nacque, così, quello che Dru Gladney (Presidente dell’Istituto del Bacino del Pacifico il Pomona College e Professore di Antropologia presso il Pomona College) ha definito “cyberseparatism” potenzialmente più pericoloso della resistenza fisica in quanto è in grado di riunire tutte le comunità uigure sparse nel mondo.

Valentina Mentesana

Seguirà La Shanghai Cooperation Organisation

Il post precedente è al link L’ascesa cinese in Asia Centrale/6, Mentesana – Lo Xinjiang

La foto di Urumqi è di Wikimedia

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