Mentre il mondo guarda con il fiato sospeso agli avvenimento ucraini, alcuni paesi balcanici sono alle prese con uno psicodramma: con chi stare?
Per quanto questa domanda possa sembrare banale o di scarso interesse, visto che in realtà le misure prese non sono poi così dure, in Bosnia, Montenegro e Serbia la gente l’ha presa sul serio. Si sono quindi creati due schieramenti opposti: da una parte i filo-europei che sostengono delle azioni di condanna all’annessione della Crimea e giurano fedeltà a Bruxelles, dall’altra i russofili che non solo si oppongono a iniziative contro il Cremlino, ma lo supportano con decisione.
Ma andiamo con ordine.
Come era prevedibile vista la sua storia recente, uno dei paesi più spaccati al suo interno è la Bosnia, dove i vari gruppi etnici hanno preso posizioni divergenti. Milorad Dodik, Presidente della Republika Srpska, ha immediatamente espresso vicinanza alla causa Crimeana, sottolineando che non è corretto paragonare quanto sta avvenendo lì con i fatti dell’ex provincia serba del Kosovo, poiché questa ha “illegittimamente dichiarato la propria indipendenza e violato la Carta ONU e la risoluzione 1244”. Egli ha aggiunto che “il referendum in Crimea è una democratica espressione di volontà popolare” e che intende imparare da quei fatti, monitorando nel contempo anche gli avvenimenti del Veneto, della Scozia e della Catalogna, che rappresentano un’importante esperienza da utilizzare al “momento giusto”. In maniera non troppo velata, quindi, il leader ha ricordato che la soluzione federale della Bosnia va stretta a lui e a molta della sua gente.
Completamente opposta è la situazione nell’altra metà del paese, dove i Bosgnacchi, sostenitori dell’ordine sancito da Dayton, hanno immediatamente espresso la loro contrarietà alle iniziative russe in Ucraina, sottolineando che questi fatti potrebbero rappresentare un grave precedente per il paese. A tal proposito sono molto chiare le dichiarazioni di Senadin Laviċ, presidente della Comunità Culturale Bosgnacca (BZK), secondo cui è “impossibile che in Republika Srpska si arrivi allo stesso scenario della Crimea, in Ucraina”, poiché la “Bosnia è un paese indipendente, sovrano e indivisibile e come tale riconosciuto nel mondo”.
Una posizione peculiare è stata invece presa da Ivan Vukoja, scrittore e sociologo erzegovese, che, come riportato dal quotidiano Oslobodjenje, sostiene che la creazione di una terza entità federale a maggioranza croata non sia più un tabù. Stando a fonti locali, per mettere (forse) a tacere le velleità secessioniste sono intervenuti anche gli USA che, per bocca della loro Ambasciata a Sarajevo, hanno dichiarato che né gli accordi del 1995 né la Costituzione del paese permettono il diritto di secessione.
Sebbene gli argomenti di cui sopra abbiano potenzialmente la forza di allargare la profonda frattura interna al paese e allontanare ulteriormente i sostenitori di Dayton da coloro i quali detestano tali accordi, al momento non si sono registrate reazioni violente. Ciò è forse dovuto anche al fatto che la Bosnia sta attraversando un momento estremamente critico e che per la prima volta le élite al potere sono apertamente contestate dal popolo.
Più strana è la situazione verificatasi in Montenegro, paese che, fino a pochi giorni fa, sembrava aver adottato (scatenando l’ilarità del web) le sanzioni anti-Russe proposte dall’Unione Europea. La conferma di ciò era arrivata anche dall’agenzia di stampa Tanjug che, basandosi su informazioni provenienti dallo staff di Catherine Ashton, aveva inserito Podgorica nella lista delle capitali extra-UE che avevano seguito Bruxelles. Il 27 marzo, però, il Premier Đukanoviċ, rivolgendosi al Parlamento, ha negato con forza che il suo governo abbia adottato alcuna forma di misura contro il Cremlino, pur ricordando che il paese ha “l’obbligo di seguire l’Unione Europea”. La posizione ambigua del Governo, comunque, riflette il particolare orientamento della classe dirigente, sempre più filo-occidentale. Sebbene storicamente legato alla Russia (“noi e i Russi siamo 200 milioni” è un vecchio detto), infatti, il Montenegro ha intrapreso passi decisi verso l’integrazione europea e la NATO, due realtà dalle quali ora non può distanziarsi in materia di politica estera. A conferma di ciò, lo stato non solo non ha riconosciuto l’esito del referendum, ma ha anche votato favorevolmente alla Risoluzione sull’integrità territoriale dell’Ucraina approvata il 27 marzo scorso dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Come era logico attendersi, però, la posizione più difficile è quella della Serbia, paese maggiormente esposto alle possibili conseguenze della crisi Ucraina e permeato di un forte sentimento filo-russo. Il principale problema è rappresentato dalla spinosa questione del Kosovo, diventato il caso limite utilizzato da Mosca per dimostrare che gli occidentali, dopo aver riconosciuto addirittura l’indipendenza di Priština, non hanno ragioni per negarla alla Crimea. I serbi, quindi, si sono trovati costretti a riflettere su come esprimersi sull’esito del voto, visto il diffuso timore che convalidare l’esito del referendum organizzato da Sinferopoli e Sebastopoli significherebbe di fatto accettare anche la perdita del Kosovo. La soluzione trovata per evitare questi dilemmi, però, è stata più semplice del previsto: a livello ufficiale, infatti, il paese non ha preso posizione, poiché, come ha detto il Presidente Nikolić, “non serve che la Serbia entri nelle liti dei grandi”. Sebbene tale decisione sembri la più ovvia, non era in realtà così scontata. Da un lato, infatti, la Serbia sta facendo grandi passi verso l’ingresso nella UE, e quindi deve avvicinarsi alla linea indicata da Bruxelles, dall’altro deve confrontarsi con i grandi aiuti economici provenienti da Mosca che permettono di costruire il South Stream e modernizzare le ferrovie.
Ma al di là di questi aspetti politici ed economici, vi è, secondo me, un altro elemento che ha, suggerito al nuovo Premier Aleksandar Vučić di restare molto prudente in questa fase: il quindicesimo anniversario dei bombardamenti NATO sulla Jugoslavia. I fatti del ’99 sono ancora scolpiti nella mente dei Serbi, che quest’anno hanno ricordato con rinnovato vigore i propri morti. Tutti i principali giornali hanno dedicato ampio spazio al periodo in cui il paese era oggetto di raid mirati organizzati dall’Alleanza Atlantica in risposta alla crisi del Kosovo, facendo riemergere il sentimento patriottico e l’avversione per l’organizzazione. Questo aspetto, poco considerato, è andato a scontrarsi con gli inviti, venuti da più parti, di condannare apertamente le azioni russe, risultando decisivo nel far schierare buona parte dell’opinione pubblica a favore di Mosca. Per quanto banale possa sembrare, un esempio di questa vicinanza è rappresentato dalla grande bandiera russa esposta durante una partita di Eurolega di Basket giocata dalla Stella Rossa di Belgrado contro una squadra di Kiev.
In ogni caso, se al momento il paese è ancora “neutrale”, la responsabilità è in parte anche da attribuire ad alcune affermazioni poco felici di esponenti o ex figure di spicco dell’Alleanza Atlantica. La portavoce della Nato Oana Lungescu, ad esempio, nel giorno in cui iniziavano le celebrazioni in memoria del bombardamento del 1999 sulla Jugoslavia, ha twittato un’immagine controversa (pubblicata in precedenza dalla Ministro per l’Integrazione Europea del Kosovo) in cui campeggiava la scritta “Nato Air. Just do it”, un chiaro richiamo alla missione Allied Force. Come se non bastasse, pochi giorni dopo, come riporta NSPM, il generale in pensione Wesley Clark ha dichiarato che l’intervento di guerra in Serbia ha creato la pace e messo fine a un regime, sottolineando che chi sta con Putin è libero di andare da lui, visto che la “Siberia è enorme e c’è posto per loro [i filorussi]”.
Una presa di posizione interessante è quella dell’Ambasciatore Statunitense a Belgrado Michael Kirby che, come riporta la TV di Stato, durante un’intervista al quotidiano Politika ha suggerito al paese di valutare attentamente la situazione, soprattutto alla luce della posizione nazionale sul tema dell’integrità territoriale. Per quanto possa sembrare strano, quindi, sono proprio gli USA a ricordare alla Serbia l’importanza dell’argomento, sebbene siano stati proprio loro gli sponsor principali dell’indipendenza del Kosovo.
In conclusione, è bene considerare che un’eventuale fallimento delle trattative in Ucraina potrebbe causare una frattura anche all’interno degli stati balcanici. In ogni caso, anche se la UE e gli USA ne dovessero uscire vincitori, reputo che sia fondamentale evitare di forzare la mano per mutare in breve tempo l’orientamento culturale prevalente. Le forti relazioni tra la Russia e i paesi sopracitati non possono essere cancellate con un semplice colpo di spugna. Il tentativo di farlo comunque, evidenziato dall’insoddisfazione di alcuni rappresentanti occidentali dinanzi alla sostanziale indecisione dei leader locali, rischia di compromettere la stabilità appena raggiunta ed esacerbare il sentimento anti-Europeo presente in alcuni stati.
Luca Susic
Nella foto Reuters fornita dall’autore l’esito della votazione Risoluzione Assemblea Generale: Montenegro sì, Bosnia e Serbia non votano