L’Ucraina oggi: crisi inevitabile o scontro annunciato?
By Luca Susic
E dai Greci andammo, e vedemmo dove officiavano in onore del loro Dio, e non sapevamo se in cielo ci trovavamo oppure in terra: […]; solo questo sappiamo: che là Dio con l’uomo coesiste, e che il rito loro è migliore.Conversione del popolo della Rus’ di Kiev al Cristianesimo, da Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del XII secolo, a cura di Italia Pia Sbriziolo, Einaudi, Torino, 1971 |
In quest’ultimo periodo molto, forse troppo, è stato scritto sulla crisi Ucraina. Lo scopo di questo articolo, quindi, non è quello di fornire al lettore uno scoop da Pulitzer, ma semplicemente cercare di aggiungere ciò che, secondo me, è più mancato nell’interpretazione dei fatti: un po’ di spirito critico. Ciò non significa, chiaramente, che le conclusioni a cui giungerò saranno necessariamente corrette od obiettive (mi sforzerò di realizzare almeno questo punto), ma potranno forse essere di qualche utilità per chi ha intenzione di affrontare da una diversa prospettiva i recenti avvenimenti.
Le proteste anti-Janukovič si sono originate verso la fine di novembre 2013, dopo che il Presidente Ucraino aveva deciso di sospendere i negoziati con l’Unione Europea per la stipula dell’European Union Association Agreement. La motivazione principale di tale scelta è sicuramente da ricercare nelle fortissime pressioni Russe per rinunciare all’accordo e iniziare il percorso di avvicinamento alla Customs Union organizzata da Mosca. L’improvviso voltafaccia del governo ha chiaramente irritato gli stati Occidentali che, più o meno immediatamente, si sono schierati a favore dei manifestanti pro-UE di Kiev.
Lasciando perdere in questa sede la cronologia dei fatti, è opportuno sottolineare che già allora gli esperti disponevano dei dati necessari a comprendere che qualsiasi scelta portata avanti dal governo centrale avrebbe necessariamente scontentato almeno metà del paese. Inspiegabilmente, però, si è deciso di ignorare questo dato e, forse rinfrancati nel vedere che Putin si concentrava sulle Olimpiadi, proseguire in una politica che, seppur comprensibile alla luce dei fatti che si stavano verificavano nella capitale, era destinata a spaccare l’Ucraina. Già il 26 novembre 2013, infatti, il Kiev International Institute of Sociology aveva pubblicato uno studio sull’orientamento del paese in materia di Unione Europea e Unione Doganale. I risultati del sondaggio parlano da soli: se si fosse dovuta votare a quel tempo l’organizzazione a cui aderire, le due entità sarebbero state separate solo da uno 0,2% dei voti (a favore della Customs Union). Andando a spulciare i dati, si sarebbe poi visto che le risposte provenienti dalla parte centrale e occidentale erano opposte a quelle delle restanti zone dell’Ucraina. Un esempio? L’Unione Europea otteneva oltre il 65% dei consensi a ovest, mentre raggiungeva solo il 14,5% a est. A mio avviso era, pertanto, facile prevedere che qualunque attore esterno avesse cercato di tirare a sé tutto il paese senza procedere per tappe successive avrebbe finito per gettare il seme della discordia fra le due anime dell’Ucraina.
La situazione è stata inoltre aggravata dal fatto che il premier deposto fosse altamente rappresentativo di quelle zone meno legate al potere ucraino e più vicine, per lingua e cultura, a Mosca. La sostituzione del loro candidato con uno maggiormente rappresentativo dell’area fortemente filo-occidentale ha fatto sì che russi e russofoni si sentissero minacciati dalla svolta “occidentalista” del nuovo esecutivo e dalla presenza, al suo interno, di gruppi estremisti della destra xenofoba o dichiaratamente fascista. Il risultato di questi timori si è concretizzato nella pressante richiesta di aiuto inviata a Mosca da tutte le regioni sud-orientali e non dalla sola Crimea come è stato spesso riferito.
Ancora una volta, quindi, la strettissima relazione fra lingua madre, gruppo etnico di appartenenza, origine geografica e orientamento politico è stata confermata sul campo. Già nel 2004, comunque, in occasione delle elezioni presidenziali, il Kiev Center of Political Studies and Conflictology aveva chiaramente dimostrato che i fattori di cui sopra erano risultati decisivi per stabilire l’esito della votazione. Il 67% dei voti totali per Viktor Jušenko (pro-Europeo), infatti, venivano da Ucraini – ucrainofoni, il 17% da Ucraini russofoni, mentre solo il 4% (4%!) dei russi – russofoni avevano scelto di appoggiarlo.
Al di là dell’orientamento delle popolazioni locali, comunque, era prevedibile che Mosca non potesse restare passiva davanti a quanto stava accadendo, perché troppo alta era la posta in gioco. Innanzitutto, come riportato da molti, è evidente che la cacciata di Janukovič avrebbe potuto destabilizzare anche la Russia, mostrando che un presidente autoritario poteva essere cacciato da una rivolta popolare più o meno spontanea. Ma ci sono altre ragioni, ben più serie, che avrebbero dovuto mettere in guardia i sostenitori di Euromaidan sull’inevitabilità di una reazione del Cremlino, pur non considerando qui l’incredibile importanza che l’Ucraina riveste per la Russia in ambito energetico ed economico, elementi che, a mio avviso, da soli sarebbero sufficienti per comprendere le motivazioni che hanno portato Putin a reagire:
- l’Ucraina riveste un ruolo fondamentale nella cultura e religione russe, che si sono sviluppate proprio a partire dal Rus’ di Kiev (a tal proposito consiglio la lettura di Storia dello Spirito Russo di Dmitrij Čiževskij) . E’ particolarmente importante considerare queste radici quando si analizzano avvenimenti che hanno come protagonisti popoli slavi e ortodossi (basti pensare all’importanza del Kosovo per i Serbi);
- Le proposte di far entrare Kiev sia nella UE che nella NATO sono percepite da Mosca come una manovra di accerchiamento molto aggressiva e volta a erodere il cuscinetto che la separa dai suoi competitors. Perdere questa sfida significherebbe anche venire quasi cacciati dal Mar Nero, che si troverebbe a diventare un “lago” ostile al Cremlino. Oltre a ciò la Russia finirebbe per confinare con uno stato nemico che, in futuro, potrebbe potenzialmente ospitare anche il sistema di difesa missilistico dell’Alleanza Atlantica.
In conclusione, ciò che forse stupisce di più di tutta questa vicenda sono la passività, la poca unità e la scarsa preparazione dell’Europa che, da guida per le componenti più occidentaliste dell’Ucraina, si trova ora a essere in balia degli eventi e dell’attivismo di John Kerry. La politica degli USA, impegnata com’è a realizzare degli obiettivi di interesse nazionale, non è né coerente con alcuni comportamenti tenuti in precedenza (si veda il caso del non riconoscimento del referendum in Crimea), né, soprattutto, sembra essere in sintonia con gli interessi che dovremmo avere noi Europei. Per ricordarcelo basta pensare che, in ogni crisi, i primi a pagare il prezzo economico e sociale di un eventuale escalation sono i gli stati vicini, cioè noi, soprattutto se, come in questo caso, dipendono così pesantemente dai rifornimenti energetici provenienti da est.
Luca Susic
Nella mappa, fornita dall’autore, i risultati delle elezioni presidenziali in Ucraina del 2004 e del 2010: Le aree colorate in giallo o viola sono quelle schieratesi con i candidati filo-occidentali nelle elezioni del 2004,2007,2010 e 2012. In blu, invece, vengono rappresentate le zone filo-Janukovič.