Set 14, 2013
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Famiglie militari, non può essere sempre solo “aiutati che il ciel ti aiuta”: scelte gravose e stress danneggiano anche l’interesse collettivo

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By Rachele Magro

Quando si parla di supporto psicologico di solito si ipotizza che i soggetti che ne usufruiscono abbiano una particolare patologia da curare. Questo è un mito da sfatare, come lo è il “non ho bisogno”. Una cosa che ho capito, nel corso della mia esperienza a supporto delle famiglie militari, è che poco abbiamo imparato dalle atroci esperienze di guerra e che spesso riusciamo a importare dagli altri paesi ciò di cui abbiamo meno bisogno. Certo è che, come Paese, con l’aria che tira in questo periodo, non siamo stati capaci di costruire una rete capillare di supporto alle famiglie militari neanche dopo i lutti che ci hanno colpito.

L’Altra Metà della Divisa, rete a supporto delle famiglie militari, ci sta provando, ma il suo percorso è lungo e pieno di ostacoli. C’è un aspetto particolare di questa Associazione che va sottolineato e che forse pone l’accento sul punto più importante di tutta questa questione. Essa nasce dalla volontà, dalle idee, e dalle forze delle mogli dei militari. Come dire, “aiutati che Dio ti aiuta””.

È una questione di cultura. Ne sono convinta. Non so se siamo capaci di guardare all’esperienza delle altre Nazioni e prendere spunti sufficienti a creare per noi qualcosa di meglio. Basta varcare i nostri confini. È vero che da diversi racconti, ascoltati non solo da me in prima persona ma conosciuti da tutti nella letteratura, potremmo rubare all’esperienza statunitense una realtà che testimonia una maggiore integrazione tra l’Istituzione militare e la Famiglia, soggetto fondamentale che nella storia che vorrei raccontarvi fa da protagonista.

I media non ci sono molto di aiuto e le critiche nei confronti delle missioni incidono sull’opinione pubblica, ampliando la spaccatura tra mondo militare e mondo civile. È difficile comprendere da parte di quest’ultimo le difficoltà date dalla complessità e dalla quotidianità di una vita da militare, soprattutto se chi te la racconta ha lo scopo di evidenziarne gli aspetti politici. Togliamo questo filtro e proviamo a starci dentro, cercando per una volta di trovarne un senso di unione e compartecipazione.

In Italia la professionalizzazione delle Forze Armate ha determinato progressivamente un rafforzamento della sua presenza nel nostro quotidiano. Molti dei nostri giovani hanno scelto questa carriera e in alcune città, prettamente a connotazione militare, non c’è una famiglia in cui non ci sia un marito, un figlio, un cugino, o genero, o moglie, figlia che non indossi una divisa. La prima cosa che ho scoperto entrando in questo mondo è che spesso sono i militari stessi a creare un divario enorme tra la loro famiglia e l’istituzione militare presso cui prestano servizio, coinvolgendo i coniugi o chi per loro solo per eventi eccezionali, e soprattutto se strettamente necessario.

Ma anche qui c’è un altro lato della medaglia, perché spesso, soprattutto durante i periodi di missioni all’estero, le problematiche vengono taciute dalle famiglie stesse per non gravare ulteriormente sulla condizione psicologica di chi deve svolgere il suo lavoro. Così sembra che paradossalmente tutto fili liscio se la famiglia, che spesso è lontana dal luogo d’origine, riesce a costituire il suo supporto sulla sua capacità di costruire relazioni individuali funzionali in maniera autonoma.

Insomma, è tipico dell’italiano medio confinare tra le mura domestiche le proprie criticità a difesa di se stessi o forse, direbbero altri, della propria maschera. Il tentativo delle famiglie militari di separazione dei due contesti ha pertanto l’unico scopo di protezione. Ciò vincola i due mondi in un isolamento dal quale nessuno dei due può trovare giovamento; rendendoli sordi alle esigenze reciproche e spesso trovando il militare imbrigliato e strattonato in egual modo e con egual forza da entrambi. Tale condizione di contrasto, nel desiderio di soddisfare le richieste di entrambi, pone il militare di fronte a scelte a volte psicologicamente gravose, favorendo per lui un terreno fertile allo stress.

L’uomo o la donna in divisa sono una parte degli attori della nostra storia, le cui azioni hanno un’influenza fondamentale sulle scelte intraprese, soprattutto in balia di un sistema che spesso chiede e poco si pone in ascolto. Queste situazioni a oggi sono sempre più frequenti in quanto, per alcuni reparti, le missioni sono diventate una routine. La storia cambia gli eventi, come sempre corriamo dietro al susseguirsi di situazioni per cui ci ritroviamo con diversi uomini impiegati all’estero, in un turn over continuo.

“Se scegli un uomo in divisa, scegli anche il suo lavoro”, lo sento dire spesso alle mogli dei militari, “il problema è che il suo lavoro non ha scelto te”.

Ci sono coniugi che affrontano con forza d’animo e determinazione i disagi derivanti da numerosi trasferimenti soprattutto nelle fasi iniziali di una carriera militare. Trasferimenti ancor più pesanti quando a lavorare sono entrambi e il coniuge spesso è costretto a reinventarsi un nuovo impiego.

È questo il senso di un supporto psicologico, semplicemente dare ascolto e comprendere un sistema familiare e lavorativo che può vivere periodi di forte stress, non determinato solo da un possibile lutto. Perché la vita di una famiglia accanto al suo soldato è reinventarsi quotidianamente di fronte a tante perdite, spesso di tempo insieme, altre volte determinate dai cambiamenti di città, molto più spesso dalle lunghe assenze.

Un supporto psicologico così come lo immagino, e su cui stiamo lavorando, è offerto da una associazione volontaria, esterna all’Istituzione militare, autonoma, senza vincoli con l’organizzazione militare stessa, ma che da essa possa ricevere sostegno e riconoscimento e che sia costituita da personale specializzato al fianco dei nostri protagonisti, in tal caso le famiglie. Perché alle famiglie è dato il compito di accoglienza e di guida, di sostegno materiale e di creazione di un gruppo in cui ci si riconosca; agli specialisti il compito di supportare e supervisionare le complicazioni e dare un sostegno professionale, oltre che permettere di individuare percorsi più funzionali allo “star bene”.

Tale Associazione, che nasce dalle intenzioni e dalla forza delle mogli di militari, quasi sull’onda del mutuo aiuto, è sicuramente molto più funzionale al perseguimento di un obiettivo di supporto concreto piuttosto che se venisse dall’alto. Semplicemente perché è più facile mettersi nei panni dell’altro dato che sono un po’ i panni tuoi. Serve una capacità di comprensione e di accettazione che sta nella condivisione, cercando di andare oltre quel “familismo amorale” di cui parla Banfield.

Perché il desiderio di protezione nei confronti dei propri legami familiari in tal caso va a danno della capacità di associarsi nell’interesse collettivo, agendo così per massimizzare unicamente i vantaggi della propria famiglia nucleare nell’ipotesi che tutti facciano in egual modo, perdendo il senso dell’appartenenza a una comunità.

È evidente ai giorni nostri l’assenza di ethos comunitario, di relazioni sociali e morali tra famiglie e tra individui all’esterno della famiglia, penalizzando così la possibilità di attivare un supporto utile e fondamentale a nuclei familiari sottoposti a costante stress.

La presenza di un gruppo di persone che nella relazione di aiuto si prodigano a sostegno delle famiglie militari, senza indossare a sua volta una divisa o sottostare a una cultura gerarchizzata di comando e controllo, è necessaria per favorire l’apertura verso una cultura diversa. Una cultura che sia di tutti, l’uno al fianco dell’altro, sotto un’unica bandiera.

Rachele Magro

Foto: dreamstime.com

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