By Partenope Felix
A giugno scorso noi italiani abbiamo celebrato il 66° anniversario di una Repubblica che non nacque dal niente, ma fu la concatenata conseguenza di guerre, lotte, sofferenze e sacrifici che si sono avuti nei due secoli precedenti. In questa congerie va ascritta di diritto un’altra Repubblica, quella Partenopea che, nata nel gennaio del 1799 dopo la fuga da Napoli del re Ferdinando I di Borbone, soccombette sotto l’urto della cosiddetta Armata della Santa Fede, i sanfedisti. Quest’armata, composta di disertori, briganti e lazzaroni che si era già resa colpevole di terribili efferatezze come il saccheggio di Altamura, era guidata da un prete con sciabola e pistole nella cintura, il cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria.
Alla Repubblica Partenopea aderirono gli uomini migliori della cultura, della medicina e del mondo accademico partenopeo e che, quando la Repubblica e cessò di esistere nel mese di giugno dello stesso anno, furono quasi tutti condannati a morte. I patiboli dei Borbone, però, avevano preso a funzionare già da qualche anno sicché si può dire che il Settecento, il “secolo dei lumi” a Napoli si stava incamminando verso l’epilogo rischiarato dai sinistri bagliori della repressione regia e del Vesuvio.
Il 12 giugno del 1794, un forte terremoto gettò nel terrore gli abitanti dell’area vesuviana e, come se non bastasse, una densa caligine di fumo e di cenere coprì il cielo del Golfo per parecchi giorni: del tutto attesa, sopravvenne l’eruzione che distrusse Torre del Greco e Resina. Benché il re e la famiglia reale fossero scappati a Sessa Aurunca per sottrarsi all’ira del vulcano e i pubblici poteri pressoché dileguati, il tribunale della Giunta di Stato continuò sinistramente a operare, condannando a morte perfino un povero demente che, rintronato dal terrore per il terremoto, aveva inveito contro Dio e il re.
La borghesia napoletana, fin dal 1792, si era messa a imitare i club Giacobini d’oltralpe ma incominciò a organizzarsi, operativamente, soltanto dopo che la flotta della Rivoluzione Francese, il 12 gennaio 1793, fece la sua apparizione intimidatoria nella rada partenopea. Nella circostanza il comandante della nave ammiraglia “Languedoc”, invitò per una rimpatriata a bordo i Giacobini napoletani. Anche se terminò con vuote, italiche declamazioni e col canto rivoluzionario della Carmagnola, quella rimpatriata galleggiante, comunque, segnò l’avvio della trasformazione delle logge massoniche napoletane in Società Patriottiche.
Piace ricordare che, sebbene privi di spirito pragmatico, i Giacobini napoletani furono i primi italiani a suonare la diana della riscossa risorgimentale e ad anticipare la Carboneria anche se, come quella, non seppero parlare il linguaggio dei ceti popolari. Il Giacobino Emanuele De Deo aveva da poco compiuto ventidue anni quando fu condannato a morte per il reato di lesa maestà perché la Società Patriottica alla quale apparteneva aveva ordito una malmessa congiura per assassinare il re Ferdinando I di Borbone.
Per quanto originario di Minervino sulle Murge, Emanuele era cresciuto a Napoli perciò è probabile che, fino alla presa della Bastiglia che tanta esaltazione instillò nell’animo dei giovani d’Europa, egli abbia condotto la vita agiata dei ragazzi della sua età e condizione. Papà De Deo, avuto promesso dalla regina Maria Carolina di far salva la vita del figlio se questi avesse rivelato i nomi di tutti i compagni di cospirazione, cercò di indurre il figlio alla delazione: circuì, imprecò, implorò ma inutilmente.
Il giovane, forse per qualche istante dovette ripensare alle persone amate che non avrebbe più rivisto, ma trovò la forza di reagire con la fatalistica dignità che taluni meridionali sanno ritrovare nei momenti supremi della loro vita. Parlò al padre con delle parole pressoché ignorate dalla storia ufficiale e che noi, invece, riportiamo integralmente:
“Padre mio, la persona per cui nome venite, non sazia del nostro dolore, spera la nostra infamia, e per vita vergognosa che a me lascia spegnerne mille onoratissime. Soffrite che io muoia; molto sangue addimanda la libertà, ma il primo sangue sarà il più chiaro. Qual vivere proponete al figlio e a voi! Dove nasconderemmo la nostra ignominia? Io fuggirei da quel che più amo, patria e parenti; voi vergognereste di ciò che più vi onora, il casato! Calmate il dolore vostro, calmate il dolore della madre, confortatevi entrambi del pensiero che io muoio innocente e per virtù. Sostenghiamo i presenti martori fuggitivi; e verrà tempo che il mio nome avrà fama onorevole nelle istorie, e voi trarrete vanto che io, nato da voi, fui morto per la patria”. La giovinezza di Emanuele terminò sul patibolo eretto in quella che oggi è Piazza Municipio.
Egli affrontò la prova suprema con un coraggio e una dignità addirittura sproporzionata alla sua giovane età e, comunque, di gran lunga superiori a quella dei suoi regali carnefici che, temendo sommovimenti di piazza si erano, infine, rintanati nella reggia di Caserta.
“Egli è morto da vero scellerato, fermamente impenitente”. Questo fu l’epitaffio che la regina di Napoli dedicò alla memoria del giovane impiccato: per Maria Carolina l’eroismo sublime era scelleratezza! Ma cosa potevamo aspettarci da un’austriaca passata alla storia, soltanto per essere stata, contemporaneamente, l’amica del cuore di lady Hamilton e dell’ammiraglio Nelson.
La storia del nostro Paese, purtroppo, è stata scritta da storici strabici per cui si sa tutto di Ciro Menotti e Amatore Sciesa ma nulla sugli eroi e sui martiri del “Pantheon minore” della Repubblica napoletana. Molti italiani, ad esempio, conoscono la vicenda di Silvio Pellico e di Pietro Maroncelli ma pochissimi sanno che quella loro fu la saga della viltà e della delazione, eppure essi assursero agli onori della storia, tant’è che ancora oggi molti istituti scolastici portano il loro nome.
Per Emanuele, invece, si ricorda soltanto una piccola lapide posta sul lato sinistra dell’entrata di Palazzo San Giacomo, sede del Comune di Napoli. In fondo è giusto così, perché egli fu un’altra cosa.
Partenope Felix
L’articolo è pubblicato sul mensile Echi della Valle Olona (numero di luglio-agosto) attualmente in edicola.
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