Certo non si sa più come fare per ingraziarseli questi islamici. Ma è così tanta la paura degli attentati? Abbiamo così tanta fifa che allo scoppio di un petardo offriamo l’ora di religione islamica? O si tratta di puro buonismo occidentale intriso di reciprocità giuridica e carità cristiana?
Voglio darvi una testimonianza, una prova di quanto questi signori islamici si facciano beffe della reciprocità. E non aspettatevi il solito raccontino proveniente dal teatro operativo dove oddio-mi-sono-messa-il-burqa o poverine-poverine-le-donne-degli-islamici. Questa è una storia che viene da un paesino del nord Italia.
Seguendo la scuola per un periodico locale mi sono trovata a parlare qualche tempo fa con i mediatori culturali di un istituto comprensivo che riunisce tre paesi e due ordini di insegnamento: elementari e medie. Due bravi signori arabi laureati in Marocco, che ormai da qualche anno a ogni ripresa della scuola campeggiano sulle prime pagine dei fogli locali per il primato del loro insegnamento in terra leghista: cultura araba.
Incuriosita da questa disponibilità, e unendo l’utile al dilettevole, mi sono informata sulla possibilità anche per i bambini italiani (ed eventualmente i loro genitori o gli adulti interessati) di seguire questi corsi di cultura araba che si tengono nelle stesse strutture scolastiche durante le ore pomeridiane.
Risposta: non è possibile per gli occidentali, perché il corso è destinato solo a bambini e mamme arabe che si trovano in Italia lontani dalla loro cultura.
Un bel progetto fatto da occidentali per uso esclusivo di non occidentali, in cui non si parla che arabo “per mantenere le radici che altrimenti andrebbero perse”. Così com’è appare invece come un esempio di discriminazione in una società cosiddetta democratica.
Era almeno la terza volta che parlavo con i due mediatori all’interno della scuola in occasione della festa interculturale dove mamme nostrane zelanti e parroci cattolici sorridenti, con tanto di rappresentanti della pastorale al seguito, facevano spazio a tajine e narghilè sui banchi della mostra. Una festicciola che di interculturale ha/aveva (non lo so e non me ne interesso più, inshallah) solo le mura dell’edificio e un idioma riconducibile all’italiano usato allegramente come lingua veicolare d’emergenza.
Siamo noi occidentali per primi a privarci della reciprocità. Non sono loro a togliercela. Semmai sono loro ad approfittare di uno scenario che porta vantaggio a una sola delle parti. Offerto su un piatto d’argento, per giunta, a spese del contribuente occidentale e cattolico.
Ho un’altra chicca. Quando seguivo sul locale le scaramucce tra un’amministrazione comunale leghista e gli islamici del posto che celebravano il loro ramadan sulla strada, perché privati dell’edificio usato come moschea da diatribe lunghe anni, mi sono trovata con gli altri presenti ad attendere di sentire in che lingua si sarebbe rivolto ai suoi fedeli l’imam della piccola cittadina.
Sul marciapiede, tra giovanissimi giornalisti locali con la kefiah intorno al collo e agenti della digos in giacca e cravatta, c’era anche l’avvocato della comunità islamica della città. Tutti in attesa di sentire le parole dell’imam. Parlerà in italiano come gli è stato richiesto?
Sì, certo che ha parlato in italiano, per introdurre l’arringa che un altro imam, venuto chissà da dove (non lo avevo mai visto, altri colleghi mi spiegavano che era quello-espulso-di-ritorno-dal-Marocco), ha tenuto in arabo per tutto il tempo. Vai a capire cosa cavolo ha detto. Solo preghiere? In quel clima di incazzatura generale?
E il bello è stato che un giornalista di una testata web locale ha scritto che l’imam ha tradotto ogni parola: si trattava del solo sermone, che altro ci poteva essere. Peccato che l’illustre collega non si fosse preoccupato di verificare con altro traduttore se il messaggio fosse effettivamente quello tradotto solo per lui. Ma che importa, l’articolo era ottimo per contrastare l’amministrazione in carica.
Non credo che la via di offrire l’ora di religione islamica ci possa portare alla pace kantiana. Forse è l’idea di Massimo D’Alema, che ha facilitato la nascita di un nuovo stato islamico nei Balcani appoggiando i bombardamenti sulla Serbia nel 1999, anche se la proposta – non sua, per carità – appare più come una ricerca di consenso mediatico prima che politico.
Già, ma quale consenso? Quello degli islamici? Il ministro dell’Economia libico ci ha fatto i complimenti dopo aver saputo dell’idea di inserire l’ora di religione islamica nelle scuole pubbliche italiane: “tra Libia e Italia non ci sono differenze perché siamo tutti figli di Abramo e adoriamo Dio”.
Solo che, come mi fece notare un paio d’anni fa una monaca ortodossa, “il nostro Dio si è fatto carne”. Questo gli islamici non lo dicono mai, coinvolgendoci – consenzienti – in una forzata comunanza che presuppone l’abbandono delle origini. Le nostre, naturalmente.
Foto: tio.ch