La confusione nelle parole, come al solito
L’Iraq non è un posto tranquillo. Del resto, quale parte del mondo lo è? L‘Iraq, sta cercando di uscire da un decennio maledetto in cui il falso scopo di instaurare la democrazia ha annebbiato, con le risibili fantastiche bugie di Bush e Blair circa ipotetiche pistole fumanti mai trovate, le menti di tutto il mondo. Nascondendo quello che c’è di reale cioè, in soldoni e per semplificare, la necessità strategica americana di presidiare quell’area e di non lasciare spazio ad altri. Soprattutto oggi, che nel quadrante si è affacciata anche la Russia, grazie ai bizzarri entusiasmi occidentali per le primavere arabe.
E ci siamo anche noi italiani. Per quale ragione ci siamo andati a impantanare da quelle parti? Difficile a dirsi. I politici, vecchi e nuovi, diranno per gli interessi nazionali, senza saperli nominare questi interessi. La realtà è più semplice, invece. Siamo lì perché non sappiamo dire di no agli alleati, assumendo erroneamente il fatto che essere in un’alleanza sia di per sé un interesse senza capire che, invece, si sta in un’alleanza solo se l’esserci ci garantisce il conseguimento di uno o più obiettivi che sottendono un nostro interesse o più di uno. E dire che ci siamo andati perché c’eravamo già stati (perché?) o per garantire che l’ENI acquisisse un bel contratto nel 2009 assieme a coreani, iracheni stessi e americani, sono sciocchezze.
Se non si comprendono queste differenze è giocoforza che ne escano poi degli aborti concettuali del tipo “strategia del successo”. Che significa? E poi, come lo si misura questo successo? Una strategia per il successo mi suonerebbe più chiaro.
Ha detto infatti il Ministro della Difesa, in visita a Mosul, che “… come saprete, il Governo italiano sta affrontando il tema della riconfigurazione del nostro impegno in questa area. Sarà la nostra una strategia d’uscita che voglio definire strategia del successo … l’importante non è l’uscita, ma il successo …”. Certo, persino ovvio, non siamo alle olimpiadi.
Tanto per cominciare, si dia uno sguardo al sito della Difesa relativo alla “Prima Parthica”, nella pagina della “missione”. Non esiste una missione, esistono compiti. Cosa molto diversa.
La missione formula anche lo scopo del fare qualcosa (compito) e questo scopo, in poche parole, ci conduce all’end state.
Cioè, in poche parole, l’operazione termina quando quel particolare stato di cose è stato conseguito, alla confluenza di più “linee di sforzo”.
A quella missione si associa un requisito ben specifico di forze che devono essere fornite da qualcuno perché si conduca un’operazione con la quale quella missione venga quindi soddisfatta.
Va da sé che qualsiasi configurazione – ha usato questo termine la Trenta – debba discendere da un’analisi che vada per esempio a dettagliare se si stia facendo la cosa giusta e se quella cosa, pur giusta, la si stia facendo bene.
Ora, mi chiedo, a che punto siamo?
Il Ministro della Difesa ha dichiarato, in quel di Mosul che “… oggi l’Iraq rappresenta il fronte avanzato dell’impegno comune nella lotta contro il terrorismo internazionale e non ci possono essere strategie diverse per combatterlo se non farlo dove si presenta e dove sono le sue radici …”.
Si può essere d’accordo. Tuttavia, non ho colto parole volte a delineare una valutazione in merito. Cioè, si ritiene che il terrorismo, quello con radici in Iraq (ammesso che sia serio fare questa distinzione), che non è solo l’ISIS ben inteso, stia per essere definitivamente sconfitto o già lo è? In questo secondo caso, per quale ragione non si chiude in poche settimane? Se invece sta per esserlo, quali sono le valutazioni fatte per procedere a una riconfigurazione? E se i lavori della ditta Trevi sono terminati, perché tutto il contingente della “Task Force Praesidium” (che viene definita nel suddetto sito, in modo ridicolo, non una missione di combattimento) non rientra subito? Che cosa significa, in questo quadro concettuale “… alleggeriremo la nostra presenza …”? Le forze di sicurezza irachene e i curdi che prepariamo (chissà se ne avevano davvero bisogno) sono pronte? Come si sta misurando quindi, e con quali criteri lo si sta facendo, il successo o meno delle varie componenti nazionali presenti nella condotta delle rispettive attività in Iraq?
Troppe domande? Vero, ma è tempo che gli italiani le inizino a porre per comprendere, dalle risposte, se il cambiamento è reale o solo fuffa.
Foto dal profilo twitter del Ministro della Difesa on Elisabetta Trenta (@Eli_Trenta)