Lug 10, 2015
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Un anno di Califfato: “spetta a noi decidere se contrastarlo o permettergli di prosperare”

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FILE - This undated file image posted on a militant website on Tuesday, Jan. 14, 2014 shows fighters from the al-Qaida linked Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL) marching in Raqqa, Syria. The past year, ISIL _ has taken over swaths of territory in Syria, particularly in the east. It has increasingly clashed with other factions, particularly an umbrella group called the Islamic Front and with Jabhat al-Nusra, or the Nusra Front, the group that Ayman al-Zawahri declared last year to be al-Qaida’s true representative in Syria. That fighting has accelerated the past month. (AP Photo/militant website, File)

By Filippo Malinverno

Era il 29 giugno del 2014 quando Abu Bakr al-Baghdadi si autoproclamò Califfo del neonato Stato Islamico, un’entità dai cupi interessi e dalla struttura tutt’altro che ben definita. Uno Stato che, privo di qualsiasi legittimazione politica a livello internazionale, sembrava, almeno inizialmente, una sorta di drôle d’État, uno “Stato per finta”.

Purtroppo non ci volle molto per capire che in realtà questo Is era ben più che una semplice organizzazione terroristica nata da una costola di Al Qaeda in Iraq.

Dopo il primo discorso del Califfo nel luglio 2014 vennero le terribili decapitazioni, poi le conquiste militari, riportate velocemente una dietro l’altra e apparentemente inarrestabili: le ultime a Ramadi e Palmira, quest’ultima patrimonio dell’UNESCO, dei cui tesori non si conosce ancora precisamente il destino.

Oltre alla perdita di Tal Abyad al confine con la Turchia, le uniche note stonate della campagna bellica islamica sono state l’assedio di Kobane, rotto dai miliziani curdi dopo circa quattro mesi, e la riconquista della città di Tikrit da parte dell’esercito iracheno nello scorso aprile.

Troppo poco per costringere le milizie dell’Is alla ritirata, tanto più che in questi ultimi mesi i soldati di Al-Baghdadi hanno evidentemente acquisito una capacità di combattere su più fronti che prima non avevano, senza contare l’ingente aumento di risorse economiche derivato dalle rendite petrolifere, dal mercato nero e dal sostegno finanziario di alcuni paesi senza identità (gli arabi del Golfo?).

Se alle abilità degli islamici uniamo la palese insufficienza delle forze di Assad e di Baghdad, dovuta sì alla scarsità di materiale bellico moderno, ma anche al basso morale delle truppe, scopriamo dunque che, dopo un anno di esistenza, il Califfato di Raqqa non è più solo il gruppo di sanguinari guerriglieri che si pensava.

Di fronte a questa minaccia qual è stata la reazione dell’Occidente?

I raid aerei guidati dalla coalizione a comando americano hanno dato risultati contraddittori: da una parte gli attacchi aerei hanno ostacolato l’espansione territoriale dell’Is, supportando le truppe di terra irachene e siriane (combinazione fino a qui poco fruttuosa), ma dall’altra hanno permesso al Califfo di propagandare contro il demone occidentale e arruolare ancor più soldati alla sua causa, non solo in Medio Oriente.

L’ottimismo sulla buona riuscita dei raid era eccessivo e l’intervento di Europa e Stati Uniti troppo poco incisivo, soprattutto in Siria, dove la strategia della coalizione non ha mai saputo individuare quale fosse il vero nemico (l’Is o Bashar al-Assad?) ed è stata minata da una lacerante ipocrisia: si vorrebbe indebolire il regime siriano, ma il vuoto da esso lasciato rischierebbe di essere colmato dallo Stato Islamico, che attualmente occupa la maggior parte del territorio intorno a Damasco.

Per arginare la sua espansione occorrerebbe un intervento massiccio e deciso, ma l’impiego di truppe di terra appare al momento un’ipotesi lontana e non percorribile: del resto le nefaste esperienze in Afghanistan e Iraq hanno provocato ferite non ancora rimarginatesi. Che fare dunque?

Ho la sensazione che, al momento, nessun leader europeo o americano abbia un’idea precisa sulla giusta soluzione e, quanto meno nel medio periodo, si continueranno a utilizzare bombardamenti aerei in grado solamente di contenere l’esercito islamico, senza costringerlo alla difensiva (almeno fino a quando i siriani e gli iracheni riusciranno a organizzare un’efficace controffensiva).

Il consolidamento dell’Is in Medio Oriente ha portato con sé un’altra evidente conseguenza: una maggiore diffusione del terrorismo fondamentalista nel mondo. Se prima gli attacchi terroristici erano ispirati da organizzazioni clandestine nascoste, ora esiste un punto di riferimento forte e affermato che sostiene attivamente queste iniziative omicide.

Il Califfato islamico costituisce una potentissima calamita per i terroristi di tutto il mondo, non solo incoraggiando gli attentati e rivendicandoli, ma anche attirando a favore della propria causa persone di ogni genere: al di là dell’estrazione sociale, della nazionalità e del credo religioso, sembra che il messaggio di Al-Baghdadi sia in grado di coinvolgere un numero impressionante di seguaci, talmente eterogenei che la stessa missione islamica radicale dell’Is appare come motivazione di facciata utile a coprirne altre.

Ogni miliziano ha i suoi interessi e combatte per il proprio futuro, nascosto dietro il fine ultimo di far trionfare l’Islam: mentre il siriano o l’iracheno combattono per le terre a loro promesse, il jihadista europeo, spesso di origini arabe ma in molti casi privo di legami con questo mondo, combatte contro l’Occidente e tutto ciò che rappresenta, per cercare nuove opportunità o per semplice fanatismo.

Così come esiste la via che conduce aspiranti miliziani islamici dall’Europa verso la Mesopotamia, esiste, o meglio, esistono, anche quelle che portano veri e propri soldati dal Medio Oriente in Europa: sono queste forse le vie più pericolose per noi occidentali, perché rintracciare le infiltrazioni è estremamente difficile e il flusso di migranti che costantemente giunge dalla Siria o dalla Libia complica queste operazioni.

Le rotte di penetrazione dell’Is in Europa sono principalmente tre, come ben evidenziato da Alfred Hackensberger in un articolo recentemente pubblicato su “Die Welt”: la prima è quella che, passando per il Bosforo, permette ai miliziani di recarsi in Grecia e da lì proseguire verso altri paesi dell’UE; la seconda passa invece per i paesi dell’ex-Jugoslavia e i travagliati Balcani, mentre la terza per la Bulgaria, dove pare che la mafia locale abbia enormi rendite dovute alla vendita di passaporti ai jihadisti.

Una volta approdati in Europa, per questi non è difficile confondersi tra i rifugiati e richiedere asilo in un paese dell’Unione: per farlo basta infatti un passaporto siriano che dimostri la volontà dell’individuo di fuggire da una situazione di guerra, così come previsto dal diritto internazionale; e reperire i passaporti non è impossibile, dato che si possono trovare sul mercato nero oppure possono essere rilasciati direttamente dagli uffici anagrafici siriani controllati dall’Is.

Esiste anche una quarta via di penetrazione, per ora poco battuta ma che potrebbe diventare molto gettonata in futuro, soprattutto se il teatro di instabilità cronica dovesse persistere: si tratta di quella che dalla Libia vedrebbe i potenziali terroristi giungere in Italia a bordo dei barconi di migranti. Certo, è il percorso più complicato dei quattro, ma la mancanza di un governo unitario e forte in loco non permette alle autorità di arginare il fenomeno: manca uno Stato, e senza Stato non ci sono controlli.

Tutto ciò in appena un anno di Isis. Nessuno sa cosa succederà fra due, ma potremmo dover essere pronti a ridisegnare i confini del Medio Oriente fino a oggi conosciuto. Che ci piaccia o no, nella Mezzaluna fertile è nato un nuovo attore molto influente: spetta a noi decidere se contrastarlo o permettergli di prosperare.

Filippo Malinverno

Foto: giornale.it

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