Capitolo 3 della tesi Sahara Occidentale: conflitto e identità attraverso le storie di vita dei guerrilleros saharawi, di Luca Maiotti
3.3 Il percorso educativo saharawi: l’insegnamento
La colonizzazione spagnola
L’educazione ricopre uno spazio fondamentale nel discorso pubblico saharawi – proprio perché inteso come uno dei mezzi di lotta politica e sociale che distinguessero l’era passata della colonizzazione dalla nuova età della coscienza nazionale.
Effettivamente la Spagna si occupò dell’educazione nella provincia del Sahara Occidentale senza particolare solerzia. Nonostante ciò dal 1948 al 1974 il sistema scolastico crebbe da 91 a 6059 studenti di scuola elementare – di cui 909 studentesse. La scuola superiore arrivò a contare 111 allievi (tra cui 3 femmine) e nel 1972 260 Saharawi entrarono in un istituto professionale. Il tasso di alfabetizzazione dell’intera popolazione saharawi era circa al 5% quando cominciò l’esilio nel 1975. Solo nel 1968 – solo sette anni prima del ritiro – le università spagnole aprirono a studenti saharawi, e questo spiega l’esiguità del numero di laureati (2) e diplomati – diploma di tipo tecnico – (12). La stessa apertura dell’università era condizionata: se era possibile per loro studiare nelle facoltà di ingegneria, diritto, economia, medicina, infermieristica e farmacia, l’accesso era vietato per le facoltà di scienze politiche, sociologia e giornalismo.
La consapevolezza delle ristrette possibilità di educazione è stato uno degli argomenti su cui il Polisario ha battuto, identificando il periodo della colonizzazione – e, parallelamente, della divisione tribale – come il periodo di buio intellettivo e ignoranza. Bucharaya Salek a questo proposito dice:
“Siamo stati colonia spagnola e lo stiamo stati dall’anno 1884 fino al 1975. Certo, siamo stati un popolo ignorante, che viaggiava per il deserto, e i coloni si sono comportati da coloni, ci hanno obbligato a non studiare, a non avere idee, a non avere persone colte perché la popolazione non li invii per far qualcosa. Questo per quasi un secolo con la Spagna”
Non era nell’interesse del governo spagnolo far crescere una classe media istruita e quindi consapevole che potesse chiedere rivendicazioni maggiori di quelle che già agitavano il Sahara Occidentale.
L’importanza dell’educazione e i primi ostacoli
Non è un caso che i dirigenti del Polisario fossero alcuni tra i Saharawi più istruiti – universitari in Marocco nel periodo delle contestazione studentesche in particolare – che si trovarono durante gli anni di guerra a dover mediare tra le istanze di rinnovamento politico-sociale e l’ordine tradizionale anche nel campo dell’istruzione. L’educazione doveva essere uno dei capisaldi per il nuovo stato – temporaneamente in esilio – perché fosse autosufficiente anche sotto questo aspetto.
I campi dei rifugiati furono un ottimo terreno per un cambio di mentalità che passasse per i banchi – che materialmente arrivarono solo molto più tardi – di scuola. Allo stesso tempo la posta in gioco – una volta raggiunta l’indipendenza nazionale – sarebbe stata quella di ricreare una generazione nuova, un obiettivo che avrebbe avuto bisogno di molto tempo per poter essere raggiunto.
Le prime campagne furono quelle più semplici: per esempio una campagna di igiene e di salute pubblica, per evitare le malattie che flagellarono il primo inverno dei rifugiati; poi – ancora più importante – quella per incoraggiare i genitori a mandare i propri figli a scuola, consenso che erano più riluttanti a concedere.
La stessa Costituzione della RASD recita all’articolo 35 che “il diritto all’educazione è garantito. L’insegnamento è obbligatorio e gratuito. Lo Stato organizza l’istituzione dell’educazione in conformità alla legislazione scolastica.”
Le scuole furono tra i primi edifici ad essere costruiti nei campi e bambini ed adulti beneficiarono di lezioni impartite dai pochi che avevano ricevuto un’istruzione superiore. Non è un caso che solo tre date siano servite a dare il nome a dei luoghi nei campi dei rifugiati – e in tutti e tre i casi si trattasse di scuole: 12 Ottobre, dichiarazione dell’unità nazionale; 9 giugno, morte di El Ouali; 27 febbraio, proclamazione della nascita della Repubblica Araba Saharawi Democratica. Era infatti la scuola il luogo deputato alla crescita e all’insegnamento di una generazione vergine di ogni educazione tradizionale. Le necessità della guerra obbligarono il Polisario a vagliare tutti gli uomini, facendo rimanere nei campi soltanto quelli che fossero veramente indispensabili: gli infermieri e i pochi insegnanti. Tra questi c’era Najim Shia:
“No, io non ho fatto la guerra, io ero un insegnante. Quando cominciò l’esodo e si iniziò ad organizzare l’azione nei campi, il Fronte Polisario, la direzione del Fronte Polisario, vide che c’era bisogno di insegnanti, di infermieri e così via per i bambini. E hanno deciso tra tutti gli uomini quelli, io ero tra questi, che si occupassero dell’insegnamento dei bambini saharawi in esilio, negli campi dei rifugiati.”
La scelta fu dettata dalla necessità di assicurare un futuro più “normale” possibile – per quanto le condizioni lo permettessero – ai bambini saharawi. Le limitazioni furono però fin da subito moltissime, prima tra tutti il numero degli insegnanti:
“Se vuole, io ho insegnato praticamente di tutto. Perché a quel tempo, visto che non avevamo abbastanza insegnanti ho insegnato arabo, ho insegnato matematica, ho insegnato scienze, ho insegnato quella che chiamiamo la nostra materia delle vite dei padri, ho insegnato chimica, ho insegnato storia e geografia, ho insegnato quasi tutto. […]. No no, durante la guerra, sono stato insegnante nella scuola di formazione dei quadri, ero professore là. Là ho insegnato altre materie, ho insegnato la sociologia e la psico-sociologia nella scuola dei quadri”
La scuola di formazione dei quadri fu costruita solo in un secondo momento, per poter dare una preparazione organica agli insegnanti – che all’inizio dovettero arrangiarsi con le proprie conoscenze. La guerra esigeva che tutti gli uomini validi fossero a combattere, ma si cercò di garantire una gamma di insegnamenti che fosse completa – nonostante le difficoltà riscontrate in primo luogo nella ricerca di persone istruite:
“Visto che c’è bisogno di questo, si trova qualcuno che per esempio ha un certo livello o delle capacità. Il mio livello non era così … ho raggiunto il diploma e poi ho fatto altri due anni e basta. Ma soltanto il bisogno mi ha obbligato a spingere più in là il livello, ho letto moltissimo e così via. Io conosco alcuni miei colleghi che non avevano raggiunto nemmeno il diploma, ma si sono talmente applicati che con la formazione sono diventati dei professori, anche al liceo, o dei farmacisti o altro. La nostra volontà a superare l’ostacolo ci ha spinto a essere così.”
Le condizioni materiali furono la difficoltà più grande che dovette affrontare il neonato saharawi nel campo dell’educazione. Si dovette creare dal nulla un corpo insegnanti, delle scuole, dei programmi e dei libri. Il processo fu graduale, ma riuscì.
“I primi anni, tipo nel 76 si comincia con una mancanza, una grande mancanza di tutto. Ciò significa che a quel tempo si avevano solo le conoscenze personali degli insegnanti. Per esempio domani si insegna storia? Si fa una piccola riunione per decidere chi farà lezione ai bambini e in ogni caso si parlerà della lezione, così la lezione che domani si farà ai bambini è là. Poi, dopo la Proclamazione della RASD è stato creato un Ministero dell’Educazione e dell’Insegnamento.
Il Ministero ha cominciato a provare a preparare dei libri per gli insegnanti. Così ha raggruppato gli insegnanti per ogni materia, per esempio il gruppo degli insegnanti che parlerà della lingua araba preparerà le lezioni di arabo, un altro gruppo preparerà storia e geografia, un altro ancora la matematica. Hanno preparato le lezioni e ne hanno fatto dei libri. I libri all’epoca non erano dattiloscritti, ma ciclostilati ed erano i primi libri che utilizzarono gli insegnanti a quel tempo. Adesso con l’aiuto delle organizzazioni spagnole, italiane, francesi e algerine, si è arrivati ad avere dei libri con un livello un po’ più alto.”
I primi tempi furono quindi caratterizzati dall’autosufficienza e da un certo grado di autogestione, demandando alla creazione di un Ministero statale la sistematizzazione dell’apparato educativo. Tale Ministero si occupò poi di sopperire alle mancanze fondamentali – i libri innanzitutto – e di coordinare gli insegnanti, evitando che le conoscenze si sparpagliassero e non si raggiungesse un livello di istruzione omogeneo. Il Ministero dell’Educazione e dell’Insegnamento si occupò anche della logistica degli ambienti in cui poter far lezione e successivamente della creazione di un organigramma scolastico che accompagnasse l’allievo dalle elementari fino alla maggiore età, garantendo un percorso completo fino alle soglie dell’università.
In più, è necessario porre l’attenzione sulla totale autonomia di questo Ministero: memori dell’esperienza di molti paesi africani decolonizzati che avevano assunto in blocco il sistema educativo dell’ex madrepatria, i Saharawi decisero di sviluppare un cammino indipendente: ciò non significò negare in blocco alcuni parametri della società occidentale, ma tener conto del vissuto anteriore, tenendo conto dei nuovi bisogni e delle nuove aspettative – da qui l’idea di ridiscutere il programma ogni anno.
“Alla fine del ‘75, inizio ‘76 si faceva lezione nelle tende. Ad un certo momento avevamo fatto lezione anche all’aria aperta, io sto qui, un altro è più in là, un altro più in là ancora. Così, all’aria aperta. Nel ‘75-‘76 c’erano bambini, ma gli allievi non erano così tanti come lo sono ora. Poi ci diedero delle tende, delle classi dentro le tende e dopo la proclamazione della RASD, il 27 febbraio 1976, lo Stato ha cominciato a pensare di costruire delle scuole.
Ha costruito delle scuole con mattoni e sabbia, così abbiamo cominciato ad avere delle scuole “moderne”, almeno rispetto ai corsi all’aria aperta.
Poi lo Stato ha costruito due collegi. Il primo è chiamato 9 giugno ed è un po’ lontano dai campi, l’altro è la scuola del 12 ottobre. Ecco nei due collegi gli studenti vivono per tutto il periodo scolastico, mangiano e dormono là dentro.”
Dunque la struttura scolastica saharawi si compone di più livelli. Dopo la scuola primaria o elementare – dalla durata di 6 anni – gli studenti lasciano le proprie famiglie all’età di 12 anni per entrare in collegio.
Il numero delle scuole elementari è cresciuto arrivando a una media di sette per ogni wilaya, mentre nei primi tempi dell’esilio se ne poteva contare al massimo una. I collegi sono in numero molto minore rispetto alle scuole primarie e ospitano giovani maschi e femmine saharawi che fanno ritorno alle proprie case per dieci giorni ogni tre mesi. Se è vero che i dormitori sono separati, la promiscuità maschi-femmine del collegio pose – e pone – dei problemi alle famiglie – restie ad oltrepassare la barriera di pudore eretta dalla tradizione islamica e saharawi. Dovette trascorrere del tempo prima che dei genitori fossero convinti a mandare le proprie figlie nel collegio e sulle famiglie concentrarono una serie di politiche di sensibilizzazione avviate dal Polisario.
Una vita da studente
Una delle interviste che ho realizzato è stata a Rachid Lehebib, un giovane saharawi di 24 anni, che ha completato l’intero percorso scolastico fino all’università prima di emigrare in Francia in cerca di lavoro. Il collegio lo ha fatto in Algeria, uno degli Stati che offre borse di studio agli studenti saharawi in base ad accordi che ha stipulato con la RASD.
“E’ molto duro, molto difficile andarsene e lasciare la famiglia per 9 mesi, è molto difficile. Quando sono andato in Algeria a 12 anni ero in grande difficoltà perché era la prima volta che lasciavo la famiglia ed era molto, molto difficile. Perché in Algeria devi cucinare da solo, lavarti i vestiti e fare molte altre cose per te da solo. Quando sei in famiglia tua mamma e tuo papà ti comprano o ti fanno sempre qualcosa, ma quando ti portano in Algeria devi fare le cose da te.”
La partenza per il collegio rappresenta, come detto, una prima separazione dal nucleo familiare, la cellula base della società, particolarmente importante in quella saharawi. I bambini si trovano catapultati in un ambiente tendenzialmente isolato dove – per mancanza di mezzi – gli si chiede di essere già molto autonomi.
“Siamo tutti studenti, ma in gruppo, perché tutti i Saharawi che vanno a studiare in Algeria vengono in gruppi, per esempio in Sidi bel Abbes sono cento, cento saharawi, ad Orano sono 50, a Béchar, nel nord dell’Algeria ce ne sono un altro numero. Si viene in gruppi e si vive nei collegi. Si vive in comune, tutti gli studenti vivono uniti, non come all’università. E’ tipo un gruppo, in una stanza ci sono tre o quattro, hai il letto, hai il bagno e ci sono uno, no, due Saharawi grandi che vengono con gli studenti come, diciamo, responsabili. I due Saharawi responsabili grandi per esempio organizzano gli studenti per fargli fare sport.”
Il trauma della separazione è di solito superato velocemente grazie alla presenza di altri bambini saharawi. Lo spostamento avviene in gruppo al fine di formare un’isola di “saharawità”, essenzialmente per due ragioni: migliorare l’ambientamento dei nuovi arrivati e ribadire un certo grado di diversità evitando un’integrazione completa – con il rischio di vederli partire saharawi e farli tornare algerini. Proprio per queste esigenze i bambini sono accompagnati da due adulti “responsabili”, che sono la guida del gruppo e organizzano attività e fungono da punti di riferimento per i giovani – che sono autonomi, ma non completamente autogestiti. Emblematico – a questo proposito – un episodio come quello che ricorda Rachid:
“Un vecchio ricordo che ho è del primo anno a Sidi Bel Abbes. La squadra dei Saharawi giocava nel torneo della città e arrivò seconda: la squadra dei Saharawi quando partecipò per la prima volta fu la seconda migliore squadra in tutta la regione di Sidi Bel Abbas. A calcio, perché ogni scuola aveva la sua squadra. I Saharawi fecero una squadra fatta da soli Saharawi e giocarono contro tutte le squadre algerine della regione di Sidi Bel Abbes, come a Milano quando giocano tutte le scuole di Milano”
E’ indicativo che anche in un torneo di calcio delle scuole della regione si sia scelto di creare una squadra di soli Saharawi. A rigor di logica, visto che la scuola era frequentata da Algerini oltre che da Saharawi, si sarebbe dovuta creare una squadra mista che rappresentasse la scuola e non la componente di provenienza. Anche nelle cose meno importanti, la volontà rimane quella di esasperare la differenza. Si è visto come il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione sia riservato ai “popoli” intesi nel senso occidentale del termine, dove il percorso storico ha fatto sì che le società avessero bisogno di evidenziare solo le differenze per poter parlare di identità. Così, i Saharawi decisero di curare – anche nei minimi aspetti – l’esigenza di marcare la separazione piuttosto che l’integrazione – come sarebbe stato logico aspettarsi in un torneo di calcio scolastico – senza che comunque questo andasse ad inficiare le relazioni con gli altri. In più – come in molti sport – fare squadra o tifare per la stessa squadra rinsalda i vincoli affettivi tra i partecipanti. E’ interessante riportare anche un altro brano:
“Siamo lì anche perché i responsabili dicono che noi siamo venuti lì sì per studiare, ma anche come ambasciatori dei Saharawi. Dobbiamo studiare bene perché abbiamo degli amici di là, abbiamo una causa e dobbiamo studiare molto molto molto molto bene e d’altra parte siamo ambasciatori quindi non dobbiamo fare niente di male.”
Il Polisario cercò di andare oltre alla semplice difficoltà economica per motivare le partenze. In altre parole colse l’occasione per far entrare a pieno titolo il futuro cittadino nel progetto di costruzione nazionale saharawi. Ogni bambino che parte diventa ambasciatore della Repubblica Araba Saharawi Democratica ed è quindi tenuto ad impegnarsi per dare una buona immagine di sé all’estero. Così facendo perfino un dodicenne viene coinvolto in prima persona nel discorso pubblico dei “grandi”. La presenza dei responsabili serve a non permettere mai che il legame con i campi rischi di sfilacciarsi o addirittura di perdersi, garantendo con il proprio ruolo non tanto un controllo diretto – tanto è vero che nelle attività di tutti i giorni gli studenti sono autonomi – quanto il riferimento continuo e sempre attuale alla patria – nonché alle aspettative di cui sono investiti.
L’ambiente del collegio sembra essere comunque tranquillo, nonostante si svuoti perché i compagni algerini se ne tornano a casa il fine settimana:
“Sono bravo in tutte le materie, sono con i migliori. Sono con i migliori perché sono molto interessato allo studio e non ci sono molte difficoltà. E’ una vita particolare quella dello studente. Quando entro in classe mi scordo di tutto, siamo interessati da quello che succede in classe. Perché il sabato e la domenica gli altri studenti tornano alla loro famiglia, giocano e fanno cose, e noi rimaniamo a scuola per lavare e fare altre cose. Sì, va tutto bene e non ci sono stati problemi nella mia vita da studente…ero molto felice.”
Il collegio rappresenta anche l’ambiente in cui maschi e femmine condividono tutto, a parte i dormitori.
La cosa non sembra turbare Rachid, quando gli chiedo se l’avesse trovato strano:
“No, è normale. Qualche volta sono allo stesso tavolo con una ragazza per studiare ed è normale, non è niente”
Considerato che il rapporto tra i sessi è più rigido durante l’adolescenza, è comprensibile la ritrosia dei genitori a lasciare partire le figlie.
L’università
La situazione dello studente cambia radicalmente durante il periodo universitario. In questo caso la decisione del Ministero dell’Educazione e dell’Istruzione fu quella di adattarsi al sistema di valutazione algerino, che assegna la possibilità di accedere alle varie facoltà in base al punteggio di uscita dal collegio. Rachid aveva scelto traduzione e – visto che a Sidi Bel Abbes non c’era l’università – si era spostato a Béchar, nella regione nord occidentale dell’Algeria. La condizione di studente universitario è completamente diversa da quella di studente del collegio:
“Hai molta più libertà di tornare nei campi dei rifugiati, di andare in altre città in Algeria, per fare molte cose. Quando sei molto piccolo non ti lasciano andare da solo perché è pericoloso, all’università hai i trasporti e tutto.
[…] All’università hai molto tempo di andare e tornare.
[…] L’università non è come il collegio. E’ diverso perché qui ci sono due persone per camera, nel collegio qualche volta si arrivava a venti in una grande stanza con letti a castello. All’università in due, con la TV, con internet e altra gente.
Puoi viaggiare di più, andare, visitare altre città in Algeria, perché sei maggiorenne quindi puoi fare più cose. Quando sei in collegio no, le fai solo con i responsabili. All’università non ci sono responsabili, ecco la differenza, non ci sono responsabili.”
La prima differenza che Rachid nota è la maggiore possibilità di tornare nei campi dei rifugiati; la seconda sono le condizioni materiali: i Saharawi non vivono più in gruppo e la quotidianità non è più comunitaria. Tv e internet sono dei lussi nei campi e Rachid – più avanti nell’intervista – ne sentirà la mancanza al ritorno a casa. La differenza più importante è l’assenza dei responsabili. Oltre che per ragioni logistiche – sarebbe impossibile assegnare due funzionari per ogni città universitaria in cui abitano degli studenti Saharawi – si ritiene maturo un percorso di studi che nei campi non può trovare il giusto spazio. Vista l’assenza di posti di lavoro infatti, gli studenti si devono abituare alla possibilità di dover vivere all’estero autonomamente, sperimentando quel “doppio esilio” imposto dalle condizioni storiche ed economiche. Ognuno di questi sarà veramente un “ambasciatore” saharawi nel mondo, formando network e cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale in merito alle vicende del Sahara Occidentale. Alla domanda “perché non hai fatto il servizio militare?” Rachid mi risponde in maniera estremamente pertinente:
“Perché dopo il 1991 per il Fronte Polisario cambiò strategia. Dopo il 1991 c’è un altro sguardo sulla situazione politica. Abbiamo bisogno di dottori, di gente che conosca l’informatica, che studi le costituzioni, le costituzioni per il Sahara Occidentale, è chiaro? Dopo il 1991 cambiò il sistema. E’ un altro mondo da quando eravamo in guerra con il Marocco. Dopo il 1991 cambiò il sistema, cambiò il mondo, cambiarono le parole delle armi e tutto il resto. Ora bisogna conoscere le lingue, saper utilizzare l’informatica e molte altre cose perché ne abbiamo bisogno per costruire la nostra costituzione. Dobbiamo conoscere molte cose perché la gente negli altri paesi in Europa, in Africa, in Asia e in America Latina conosca la causa del Sahara Occidentale. Quindi dopo il 1991 non è più obbligatorio entrare nel servizio militare, cioè è come vuoi tu, se vuoi andare vai, altrimenti no.”
La stessa scelta dell’università invece della leva militare – in un paese che è riuscito a sopravvivere soprattutto grazie alle proprie peculiari capacità belliche – significa un vero cambio di mentalità.
Studiare all’estero
L’Algeria è il paese dove studia la maggior parte degli studenti saharawi tra collegi e università. Lo Stato offre borse di studio complete e la vicinanza ai campi dei rifugiati permette di tornare con maggiore frequenza rispetto ad altre destinazioni. La vicinanza culturale incoraggia soprattutto i genitori di femmine a mandare le proprie figlie a studiare lì. La difficoltà principale – incontrata anche da Rachid – è la conoscenza del francese, lingua che fa parte del sistema educativo algerino, oltre che l’adattamento ad uno standard scolastico leggermente più alto.
“All’inizio, quando arrivammo in Algeria noi non parlavamo francese perché alle elementari si insegnava solo spagnolo, mentre il sistema educativo in Algeria ha il francese come seconda lingua e l’arabo come prima. E’ difficile arrivare in Algeria e non parlare né capire il francese. I miei amici, i miei amici algerini, mi hanno aiutato moltissimo. […] La scuola in Algeria comincia in settembre e noi arriviamo in ritardo. I nostri compagni algerini ci hanno aiutato per i corsi ed è stato molto importante per noi.”
I legami che intercorrono tra la RASD e l’Algeria sono stati storicamente fortissimi, ma il paese maghrebino non fu l’unico a fornire supporto logistico nel percorso educativo dei giovani saharawi.
Soprattutto per ragioni ideologiche Cuba fu una delle prime a permettere che studenti saharawi potessero formarsi sull’isola. Il primo gruppo arrivò nel 1977 dando avvio ad un programma di borse di studio che negli anni avrebbe formato più di 4000 Saharawi secondo le istituzioni cubane. 300 tra questi furono destinati a studi medici, in modo che potessero ritornare in patria con un bagaglio di sapere spendibile immediatamente: la prospettiva del programma per i bambini coinvolti era quella del ritorno nei campi dei rifugiati, per mettere al servizio della comunità quanto appreso all’estero. Slama Amarna era stato selezionato per andare a studiare nell’isola di Cuba:
“Io quindi sono stato lì per la tutta la scuola, che aveva circa 600 persone, ed eravamo 600 che parlavamo bene castigliano per esempio. E niente, vai, è un’opportunità, che puoi studiare là, eravamo un gruppo di bambini di dodici, tredici o quattordici anni che hanno avuto questa opportunità che altri non hanno avuto. Abbiamo studiato e siamo tornati ciascuno con la sua specialità, quindi qualcuno si è laureato all’accademia militare, qualcuno è diventato medico o professore.”
Il soggiorno a Cuba è un’esperienza a lungo termine: i bambini passano più di dieci anni – a seconda del percorso di studi – nell’Isla de la Juventud, in condizioni diverse dai loro coetanei in Algeria.
“Per prima cosa tutti i Saharawi che sono andati a Cuba studiavano nelle stesse scuole, vivendo nella stessa scuola. Sono scuole-collegi diciamo, dove studi, vivi e mangi. Finisci il collegio e poi vai oltre, per esempio ai precorsi per l’università e lì incontri Cubani o persone di altre nazionalità. In quel momento Cuba appoggiava quasi tutti i movimenti per la libertà che c’erano, per l’Angola, per il Mozambico e per la nostra causa, che è una causa giusta per la liberazione del nostro paese. Ci aiutavano in molte cose, ma soprattutto per l’insegnamento ai bambini.”
Sull’Isla de la Juventud lo Stato cubano riservò ai Saharawi un totale di tre scuole, due medie inferiori e una media superiore da 400 alunni l’una, fornendo anche vitto, alloggio ed insegnanti ai bambini. Il rischio di queste partenze era ovviamente quello di perdere il legame con la madrepatria – molto più acuito rispetto alla situazione dei bambini che studiavano in Algeria, che avevano la possibilità di tornare ogni tre mesi. Il sistema utilizzato fu quindi lo stesso: nelle scuole gli insegnanti erano cubani, ma la vita comune era con dei responsabili che venivano dal Sahara Occidentale.
E’ indubbio però che l’università – per la libertà di autogestione che essa implicava – rappresentava un momento di incontro con persone provenienti da realtà estremamente differenti. L’impronta del collegio e dell’università impresse un’impronta sulla mentalità e sulla considerazione di coloro che avevano fatto gli studi a Cuba. Al ritorno si dovettero confrontare con dei costumi piuttosto differenti da quelli incontrati per la durata della propria adolescenza – in particolare il rapporto uomo-donna – tanto che fu coniato per loro il neologismo “Cubarauis” dall’incontro tra “Cubanos” e “Sahrauis”.
Gli altri paesi coinvolti nel sistema di educazione saharawi furono la Libia e la Siria.
In particolare la prima ha sempre offerto supporto ai giovani saharawi per la propria vocazione al panarabismo – nonostante il cambio di diplomazia avvenuto tra il colonnello Gheddafi e il Polisario. Se per la Libia nel 2001 700 studenti erano coinvolti – secondo le stime del Sahara Press Service – il volume era molo minore per la Siria, dove lo stato pagava agli studenti solo le borse scolastiche, mentre il Fronte garantiva un minimo per i bisogni di tutti i giorni, ma i dati a disposizione sono più scarni per la Siria.
In realtà gli alunni non furono gli unici ad essere coinvolti in progetti all’estero. Gli stessi insegnanti seguirono dei cicli di corsi di formazione in paesi partner perché potessero aggiornarsi – e, di riflesso – aggiornare il programma da proporre agli studenti:
“Il Ministero dell’Insegnamento e dell’Educazione organizza durante l’estate la formazione degli insegnanti. Gli insegnanti che hanno un livello più alto sono quelli che fanno lezione agli altri insegnanti. Così c’è uno scambio. Intanto altri insegnanti si occupano di correggere i programmi per migliorarne l’utilizzo e per aggiungere eventuali cose importanti. Poi c’è l’occasione di inviare gli insegnanti in altri paesi come l’Algeria, la Spagna e Cuba.
All’inizio degli anni 80 seguono una formazione là e tornano con un livello più alto, metodi pedagogici e così via. […] Quando torna per esempio un gruppo che era in formazione il ministero ne invia un altro. Così quasi tutti i gruppi e tutti gli insegnanti, o fanno formazione all’estero o la fanno nei campi nella scuola di formazione degli insegnanti.”
La mobilità diventò quindi una dimensione costante per studenti e insegnanti: alla provvisorietà dell’esilio nei campi si aggiunse una condizione di ulteriore sradicamento dal nucleo familiare o dalla società originaria. La condizione di impossibilità materiale di garantire un insegnamento che vada oltre l’alfabetizzazione o un livello base nelle materie più importanti costrinse il Fronte ad organizzare dei partenariati con i paesi ideologicamente vicini, ovvero a contare ancora una volta sull’aiuto internazionale. Seppur contenesse in sé i pericoli di uno sfilacciamento identitario, la partenza divenne anche un’opportunità per rinnovarsi e per sensibilizzare l’opinione pubblica estera: gli studenti ritornarono con conoscenze e tecniche maggiori e crearono dei network di solidarietà e informazione nei paesi ospitanti.
Il grande spazio saharawi
Per la generazione che visse il trauma dell’abbandono della patria e per quella immediatamente successiva fu semplice conservare il ricordo del Sahara Occidentale. Difficoltoso, invece, rinsaldare il legame per coloro che la patria non l’avevano mai vista.
Le due generazioni successive conobbero il Sahara Occidentale solo attraverso i racconti, rendendo necessaria una “sistematizzazione” degli eventi storici del discorso sulla storia degli eventi. Il Fronte Polisario non si lasciò sfuggire l’occasione di riscrivere la propria storia alla luce degli avvenimenti più recenti e di far crescere la propria popolazione nella consapevolezza di un passato comune che li distinguesse dal Marocco e dalla Mauritania. Ciò non significò necessariamente manipolare la realtà, mistificandola attraverso l’eliminazione dalla narrazione di qualunque elemento non in linea con l’immagine che si volesse dare di sé, ma segnò un passaggio necessario nella costruzione di una coscienza nazionale. Come in ogni altro Stato infatti, si sceglie una sola versione “ufficiale” della Storia alla quale eventualmente si potranno affiancare altre interpretazioni o racconti paralleli.
La scuola giocò un ruolo di primo piano nella costruzione identitaria nazionale nella condivisione di un nucleo di sapere ufficiale – il cui successo è confermato dalle interviste. Molte interviste, nelle prime domande, contengono una serie di rimandi storici tutti uguali e tutti puntuali (la data d’inizio della colonizzazione spagnola, l’azione del Polisario) che illustrano sinteticamente il percorso del popolo saharawi. Prevedibile che tale spiegazione – peraltro non richiesta specificatamente – fosse addotta da professori o responsabili di associazioni, non scontato udirla da ex militari, ingegneri e così via. La ragione è che a scuola – in tutti i gradi – esiste una materia specifica:
“[…] il grande spazio. E’ la [materia] più grande. Abbiamo lavorato così tanto per conservare la nostra identità che è diversa dall’identità degli altri, dei marocchini”
Quando chiedo di spiegare cosa sia questo “grande spazio saharawi” Najim Shia mi risponde:
“Significa che ci sono alcune materie diciamo di educazione nazionale. In questa educazione nazionale si insegna agli studenti le origini, l’identità, perché fanno un tipo di vita, che bisogna fare per conservarla, si parla dei nostri costumi. E per esempio alle elementari non è come in collegio, in collegio ce n’è di più rispetto alle elementari. Per esempio alle elementari si dice all’allievo che è un Saharawi, per i suoi genitori, è là perché c’è stato un esodo, perché c’è stata l’invasione marocchina-mauritana. Al collegio si approfondisce, si studia più cultura saharawi, il modo di vivere prima, anche prima dell’arrivo della Spagna sul territorio, come hanno fatto i Saharawi per combattere gli spagnoli e anche il Fronte e come fa ora per lottare senza combattere, per raggiungere l’indipendenza. E anche cosa dobbiamo fare noi e voi, i giovani, per conservare l’identità e continuare a combattere per raggiungere la nostra indipendenza.”
L’educazione nazionale accompagna lo studente per tutto il ciclo di studi inferiori per stratificare una consapevolezza di differenza culturale su cui poi si può impiantare il discorso all’autodeterminazione secondo il diritto ONU.
“[…] nell’educazione nazionale ci sono storia e geografia. La storia comprende anche l’ora di storia di origine del popolo saharawi, il suo arrivo nel Sahara Occidentale, come era organizzato prima dell’arrivo della Spagna, l’arrivo della Spagna, la loro lotta durante la colonizzazione. Poi i movimenti nazionalisti saharawi, la nascita di un movimento nazionale saharawi, la nascita del Fronte Polisario e tutto quello che ha fatto il Polisario.
La geografia comprende anche il Sahara Occidentale da un punto di vista geografico, le ricchezze, le frontiere, le risorse marittime e comprende i villaggi, le montagne e ci sono anche le risorse agricole. Questo per la geografia.”
Nella pratica il grande spazio saharawi è una materia trasversale alle altre, un filo rosso che le lega tutte. Tutti gli studenti acquisiscono così una rete di conoscenze comuni che fanno da riferimento identitario anche in condizioni di lontananza dalla patria. In altre parole, si crea nel tempo un nocciolo duro di saperi e di immagini che si stratificano fino a formare una vera e propria autocoscienza nazionale saharawi. Autocoscienza qui riprende in realtà due accezioni: la prima è la coscienza personale – che si crea appunto in conseguenza di un lungo processo dettato dalle sollecitazioni materiali e psicologiche – mentre la seconda è intesa ad un livello più generale – in quanto sono gli stessi rappresentanti del popolo saharawi, benché élite, a proporre una differenziazione culturale che possa giustificare l’obiettivo di autodeterminazione nazionale.
Luca Maiotti
Il post precedente è al link Sahara Occidentale: conflitto e identità attraverso le storie di vita dei guerrilleros saharawi, L.Maiotti/13 – La donna saharawi (22 aprile 2015)
Seguiranno le Conclusioni