Mag 14, 2015
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IS: esperti combattenti cercasi subito, causa deficit di attentatori suicidi

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ImageBy Elisabetta Benedetti
Collaboratore di ricerca presso l’Università di Trieste
Master ISSMI, Dott. Ric. Scienze strategiche
Già prof. a contratto di Studi Strategici – Università di Torino
Uff.Ris.Sel. E.I.

“Our culture of martyrdom needs to be revived because the enemy of Allah fears nothing more than our love of death” – Anwar al-Awlaki

Premessa

Il network del terrore jihadista al quale siamo ormai sin troppo abituati assume aspetti differenti a livello locale, nel tentativo perpetuo di adattarsi alle condizioni contingenti per sfruttarne le peculiarità.

Nel muoversi nello spazio attraverso azioni e reazioni, il network comunica e lo fa costantemente, attraverso dichiarazioni visuali e verbali di varia natura. Sebbene questa prodigalità di dati ed il fornire continue informazioni su se stesso (innumerevoli volte il frutto di scelte meramente propagandistiche) sia passibile di confondere il ricevente, rischiando di distrarlo dalle nozioni più significative, è pur possibile fermarsi ad analizzare singoli pezzi di informazione in tale flusso di dati.

MapCiò nella speranza di individuare elementi specifici di interesse che rimandino a strategie generali, permettendo di ipotizzare micro-movimenti e cambiamenti di rotta eventuali afferenti l’intero network o quella parte di esso che opera in una determinata frazione territoriale.

Ritengo che il testo emesso e distribuito il 27 aprile scorso, che si configura come una chiamata alle armi, sia significativo, a livello locale se non globale, per individuare alcune sfacettature del network terrorista nell’area del sedicente Stato Islamico.

È bene premettere che la scelta di continuare a parlare di network, ovvero di una rete del terrore nonostante l’attuale esistenza di una base territoriale (un “sistema” vero e proprio), deriva dalla scelta arbitraria di chi scrive di non contribuire, anche indirettamente, alla smania jihadista di legittimare l’esistenza del Califfato.

Il testo è stato esaminato nella traduzione fornita dal Combating Terrorism Center (West Point) – Let’s your blood be (the Caliphate) fuel (Fate che il vostro sangue alimenti il califfato) – reperibile al link:

https://www.ctc.usma.edu/v2/wp-content/uploads/2015/04/ACallforArms_EnglishTranslation.pdf e analizzato dallo stesso Centro alla pagina https://www.ctc.usma.edu/posts/ctc-perspectives-let-your-blood-be-the-caliphates-fuel

Si tratta di un documento stampato e presumibilmente distribuito dall’Aleppo Center of Preaching and Mosques dello Stato Islamico (IS). Il modo di diffusione è abbastanza comune in base alle strategie jihadiste: ampio utilizzo di account Twitter facenti capo a supporter e membri.

FlagL’interessante struttura comunicativa realizzata sul social network suddetto, con account hub, ovvero nodi principali della rete, e account secondari ridondanti (attivi o passivi nel passaggio di informazioni) più il meccanismo imperniato sulle due attività chiave del social network – seguire o essere seguiti – (follow/follower) e sulle tecniche per acquisire nuovi contatti, anche con l’uso di hashtag, non può essere esplicitata in questa sede e sarà oggetto di una differente disamina.

L’analisi della chiamata alle armi verrà effettuata in base al contenuto del testo, messo in relazione con fatti e fattori contingenti (valenza dei luoghi, caratteri dei combattenti, strategia globale) e, soprattutto, in relazione al concetto stesso di Califfato.

Luogo di emissione

Il proclama riporta, in cima al testo, l’indicazione dello Stato Islamico e della Provincia di Aleppo (Wilayat Halab), già punto mediatico di diffusione di informazioni. Aleppo, centro finanziario e industriale della Siria di al-Assad, porta del nord sulla Turchia, è senza dubbio luogo di valenza simbolica. Una città così importante che la lotta per il suo controllo, già nel 2012, veniva definita dall’agenzia di stampa statale come “la madre di tutte le battaglie”.

In una Siria frammentata tra regime e gruppo jihadista, entrambi di natura settaria ed autocratica, Aleppo è critica perché la vittoria delle forze jihadiste in loco esautora la credibilità dell’opposizione e rende qualsiasi possibilità di negoziazione inattuabile (“At stake in Aleppo is not regime victory but opposition defeat” cit. Noah Bonsey, International CrIS Group).

Damasco non contempla un cessate il fuoco tra regime e ribelli anti-IS a pena di una modifica sostanziale delle propria strategia e dei propri obiettivi; d’altro canto, la frammentazione ideologica dei gruppi ribelli non aiuta certamente la causa del contrasto alle forze jihadiste.

Aleppo è, virtualmente, il simbolo di una Siria unita e democratica ed è, in tal senso, da un lato un elemento unificante per le forze anti IS e, dall’altro, fattore chiave e simbolico per le forze jihadiste.
L’utilizzo della stessa nel testo mira probabilmente a rafforzare l’idea di un centro direzionale delle informazioni che legittimi la validità delle stesse.

Concetto chiave del testo: “Let your blood be its fuel”

Una riflessione sulla santità del sangue musulmano non può certamente essere oggetto della presente analisi. Si può solo menzionare, in questa sede, la valenza dell’elemento del “sangue” come fattore unificante a fronte di uno spettro di membri eterogenei per provenienza e sfaccettature ideologiche. E’ fattore aggregante, quindi, in quanto accomuna combattenti di diversa provenienza ed esperienza e lo è anche in quanto, nel contesto, si allude al contribuire alla costruzione di un qualcosa di unitario.

L’accento sulla necessità di alimentare il Califfato con l’apporto individuale (della vita, in questo caso) da un lato ne esalta la componente di entità creata “dal basso” (come il network al-qaedista), ma, dall’altro, potrebbe mettere in evidenza una situazione attuale di carenza di risorse umane. Tale eventuale mancanza (l’assenza di ricambio interno tra i membri) è il fattore più pericoloso per una rete terrorista e, ancor più, per una rete che tenta di farsi stato/sistema.

Il rischio di divenire un sistema chiuso, privo di un rinnovamento sufficiente in termini umani, ne determinerebbe la fine per esaurimento naturale.

Autorità emittente

Il testo riporta in chiusura la seguente dicitura:

“The Islamic State
The Center of Preaching and Mosques
The Islamic State
Wilayat Halab
Official in charge of Preaching and Mosques”

Non manca quindi, come è ovvio, il riferimento all’esistenza di una autorità “statale” alle spalle della chiamata, fattore che è un aggregatore fondamentale. L’affermazione di uno Stato emanatore del documento rimanda all’accento posto su un’entità “reale” e, quanto più possibile, “legittima”.

Non è specificato, né in testa né a fine documento, il nome del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi (ora sostituito da Abu Alaa al-Afri), se non probabilmente nel trafiletto “A call up for arms by the emir of believers to his soldiers”. Il riferimento all’esistenza di una tale autorità è cruciale e rimanda ad una struttura di tipo gerarchico (top-down), tipica di una struttura statale.

Destinatari

“To the emirs of the regions, may God make his religious victorious through them, and their
brothers, the soldiers of the caliphate in their regions”

I target pricipali del messaggio sono, come chiaramente dichiarato nel testo,”gli emiri della regione”. Target secondario sono i loro soldati nella stessa area. Nonostante si passi poi alla chiamata diretta di mobilitazione, quindi, si cerca di indirizzarsi prima ad una struttura di tipo gerarchico. In particolare, si devolve a questi capi locali la responsabilità di valutare le caratteristiche dei potenziali combattenti. Il reclutamento è, quindi, a cascata: “Defend God’s religion, and call upon the brothers in your regions to join the fight”.

Si torna all’utilizzo di strutture cellulari (il membro che coinvolge il suo pari attiguo), come per Al-Qaeda, ora però maggiormente ancorate alla dimensione territoriale, lo spazio vitale nell’ambito del quale si sviluppano le interazioni tra i membri.

L’impostazione usata sembra, inoltre, riflettere i concetti di controllo ed esecuzione come intesi da al-Baghdadi: la centralizzazione del primo e la decentralizzazione, al contrario, della seconda (come evidenziato nella campagna denominata “Breaking the Walls”, durata da luglio 2012 allo stesso mese del 2013, e caratterizzata da ondate di attentati sincronizzati con auto bomba in location differenti).

Seguendo tale visione, l’ordine/richiesta è centrale, ma il livello di partecipazione è deciso, in base ad elementi connessi alla situazione contingente, dai comandanti provinciali.

L’elemento del territorio si basa poi, a sua volta, su un altro e ben più importante fattore, ovvero l’elemento umano che fa da perno fondamentale: l’agente del network (il membro), che si fa hub motivazionale nel suo ambito territoriale di competenza.

Torna pertanto utile il concetto di “emergenza” (elementi combinati che non si sommano semplicemente ma creano una nuova entità, con valore superiore all’addizione risultante): i singoli che agivano nel loro ambito e con i loro pari, chiamati ora ad agire altrove, danno vita ad un nuovo corpus con caratteristiche nuovamente differenti. Si vedrà poi come tali membri, in precedenza combattenti senza “data di scadenza” si trasmutano ora in elementi precipuamente votati al martirio.

Cambia, quindi, l’intero concetto del loro impiego nel conflitto. Cambia non solo la strategia globale ma anche il comportamento dei singoli a livello tattico e quello emergente (aggregato).

Legittimazione religiosa

“Prophet Muhammad said “When you are called (by the Muslim ruler) for fighting, go forth
immediately”

Il riferimento alla divinità è ovviamente impiegato per dare solennità alla chiamata e per fornire anche un quadro di continuità alla contesa (“This is one of God’s days, and it will get only more furious”)

Zona di mobilitazione: la Siria come fucina di combattenti

“…in the wilayat of al-Sham [Syrian provinces]”

Come accaduto in altri scenari, la guerra civile siriana ha fornito all’IS una base sicura nella fase preparatoria e di build-up (per non parlare dei campi di addestramento dove le esperienze dei locali si combinano a quelle di ex-combattenti e reduci di conflitti anche molto lontani geograficamente).

Non solo: ha dato all’IS nuovi attentatori suicidi ma anche e soprattutto combattenti mobili e con esperienza di conflitto urbano. Ciò ha fatto sì che le forze jihadiste abbiano assunto (si veda ad esempio l’attacco del giugno 2014 a Mosul) sempre più una forma di “esercito” reale rafforzato poi da cellule già presenti sul territorio iracheno (anche se con le criticità del caso).

Zona di intervento

“…to support the two battle fronts in “al-Anbar and Slah al-Din””

La frammentazione sociale in Iraq così come le differenti strategie e priorità delle forze anti-IS (si pensi alle dichiarazioni del giugno scorso dello sceicco al-Suleimani, capo della tribù sunnita Dulaimi che subordinava la lotta contro i jihadisti ad una uscita di scena di Al-Maliki) con la conseguente assenza di una visione unitaria, hanno rallentato la liberazione delle aree interessate dalla presenza jihadista.

Esaminate come sistema, entrambe le zone destinazione dei volontari, per fragilità strutturale, si possono ipotizzare come estremamente sensibili alle variazioni contingenti e pertanto suscettibili di subire profondi cambiamenti anche in reazione a piccole perturbazioni (quale l’iniezione di un nuovo gruppo di membri, partecipanti attivi al conflitto).

> al-Anbar

Anbar, affetta da un’elevata violenza settaria (in special modo dopo l’arresto per terrorismo, nel 2013, di collaboratori del ministro iracheno delle finanze da parte delle forze di sicurezza) è già stata piattaforma geografica di aggregazione per fazioni armate terroristiche (si pensi ad Hamas in Iraq, al Mujahedeen Army e all’Islamic Army in Iraq – AIA) e di organizzazioni estremistiche, come al-Qaeda (in special modo e sino al 2007, Khalidiyah). In effetti, essa può essere considerata un punto di transito sia per l’IS che per Al-Qaeda.

L’impeto dell’IS a tale zona diretto (con avanzamenti ma anche sconfitte a favore delle forze irachene) risponde alla valutazione dell’opportunità di usufruire di una provincia parzialmente caotica nella quale inserirsi come attore di spicco.

La divisione tribale (di natura storica ma acuitasi dopo l’occupazione del 2003) e più marcata in alcune aree è terreno fertile per i jihadisti (che si nutrono delle divisioni locali per accrescere la propria influenza), mentre la relativa omogenità in tal senso in altre si risolve, al contrario, in una marcata opposizione (come nel centro amministrativo della provincia di Anbar, Ramadi e per la città di Haditha).
Interessante mettere in luce come lo stesso senso di cittadinanza sia inteso, in quella zone, in una accezione prettamente locale (di provincia Sunnita) più che nazionale, determinando anche un rapporto spesso conflittuale con le forze di sicurezza irachene. Ciò acuisce il rischio di far divenire la stessa area un safe haven dei terroristi jihadisti (o perlomeno di farla apparire tale agli occhi dei governanti centrali, con le immaginabili conseguenze del caso).

IS è mobile in Anbar grazie anche all’abile gestione delle tribù con la creazione di alleanze, come già accaduto con Al-Qaeda, attraverso la sistematica focalizzazione sulla loro possibile dichiarazione di lealtà, tenendo conto anche delle rapide mutazioni di alleanza ad opera degli sceicchi locali (si pensi al passaggio da sostenitore ad aperto oppositore del Governo centrale dello sceicco Ali Hatem Al-Salman, capo della più vasta tribù di Anbar).

Invero, la preponderanza della causa di matrice prettamente jihadista ha minato il piano dell’IS di agganciarsi alla società locale come elemento di supporto ai Sunniti, purtuttavia le divisioni societarie che incidono sulle priorità e sugli obiettivi non possono che favorire un’entità esterna che si presenta, almeno dal di fuori, come sufficientemente compatta (ne hanno in tal senso risentito anche le precedenti vittorie del Sahwa groups ai danni di Al-Qaeda nel 2008).

Il successivo (specie quello, recentissimo, del 2014) avanzare jihadista nella stessa Anbar sarebbe dovuto proprio al mancato supporto alle tribù in chiave anti-IS da parte del governo iracheno.

Influiscono sulla situazione il fatto che non sia ancora stato determinato, a livello centrale, il coinvolgimento della popolazione locale di Anbar nella liberazione dell’area nonché le dubbie politiche a livello centrale che utilizzano pratiche di patronaggio e simili.

Il tribalismo, però, non è presente con la stessa intensità in tutta la provicia. Fallujah, ad esempio, soggetta ad una progressiva deriva salafista (probabilmente in un processo di re-invenzione dell’identità sunnita), è maggiormente influenzata dal clero radicale piuttosto che dal tribalismo.

>Slah al-Din

L’accento su questa provincia (di valenza simbolica in quanto denominata in onore del leader musulmano curdo del 12° secolo che combatteva i crociati) è certamente dovuto alle vaste operazioni messe in atto dalle forze irachene (“Labbaik Ya Rasulallah”) già da marzo scorso (il 15 aprile è stata annunciata la terza fase delle operazioni per liberare altre città della provincia).

In relazione a ciò è importante notare il supporto fornito a tali forze da diversi gruppi/milizie popolari e clan della provincia suddetta, una delle più instabili in Irak.

La liberazione di Tikrit (città natale di Saddam Hussein, luogo di valenza storica come Mosul e strategicamente importante) ha una valenza particolare sia per le forze irachene che per l’IS. Le prime hanno messo a segno un colpo importante nella battaglia contro i jihadisti per gli effetti sulle linee di rifornimento degli stessi ed anche per la valenza riunificatoria sulla società (possibile unione di Sciiti e Sunniti, invero connessa alla lotta contro un nemico comune), tenendo conto del già detto sfruttamento fatto dai jihadisti delle fratture interne alla società stessa (si rammenti l’esplosione di violenza settaria del 2006 a seguito dell’attacco alla Moschea Al-Askari di Samarra). L’effetto sul campo jihadista è, invece, di indebolimento, anche per quel che riguarda la morale dei membri.

La richiesta nel testo di combattenti esperti rispecchia la nuova consapevolezza dei jihadisti di trovarsi ad affrontare delle forze irachene ora meglio equipaggiate ed addestrate. Lo stesso uso dei membri suicidi, non essendosi rivelata sufficiente, per scarsità numerica, a volgere le sorti del conflitto sul terreno, determina la necessità di una rinnovata richiesta di martiri. Con l’incremento di capacità dell’avversario convenzionale, l’IS si trova quindi costretto a ripiegare su meccanismi asimmetrici di combattimento, probabilmente ricavandone un colpo all’ego della propria struttura di esercito “reale”.

Altro punto da evidenziare meglio è la collaborazione della popolazione (una delle più rurali dell’Iraq) con le forze irachene: una volta di più la popolazione è centro di gravità (si pensi alla mobilitazione spontanea di un migliaio di cittadini di Samarra unitisi alle forze di sicurezza).

Motivo della chiamata e criticità della difesa

“…they have raided against our brothers in wilayat al-Anbar and Slah al-Din”.

La chiamata alle armi è presentata come una reazione alle attività del nemico.

Classico è il riferimento ad un “causa” per la mobilitazione (l’elemento jihadista ha spesso fatto ricorso a questo per concentrare gli sforzi in senso fisico e temporale verso determinati obiettivi).

Si sottolinea, quindi, la problematicità delle due località in quanto soggette ad attività avversarie che le rendono passibili di venir perdute. L’IS come forza di natura prettamente militare è orientata all’attacco ma presenta problematiche relative alla difesa, specie se soggetta ad attacchi da differenti direzioni e vista anche la già detta volatilità delle sue eventuali alleanze contingenti con portatori di interesse locali, per non parlare del fatto che la sua struttura di difesa è, per la maggior parte, composta da nuovi membri prima pertinenti ad altri gruppi.

L’inglobamento di interi network di combattenti, utili a fini di difesa, è esso stesso passibile di criticità, sebbene più facile per quel che riguarda gruppi Salafisti ideologicamente più vicini (Jamaat Ansar al-Islam).

La ricerca di un accordo con i gruppi tribali attraverso l’assecondamento di loro esigenze in relazione ad altri gruppi dell’area (es: Arabi Vs Curdi) ha portato, nel tempo, un progressivo approfondimento dell’alleanza ma, come già notato, la presa sull’elemento umano non sembra affatto scontata.

La popolazione locale (il rapporto con la stessa) è un elemento più che potenzialmente arduo e lo spingere la popolazione fuori da determinate aree sembra rientrare appieno nella strategia difensiva jihadista ove non sia fattibile ottenere la loro collaborazione.

Ritornando alle attività di difesa, interessante è valutare la valenza della proclamazione del Califfato in relazione all’eventuale perdita di territorio. La creazione di un Stato, infatti, ha reso più difficile accettare la perdita di zone già assoggettate. In qualche modo, la riduzione territoriale erode il concetto stesso dello Stato, così fortemente voluto e importante per i jihadisti.

Il network jihadista, costruendosi l’identità di Stato, necessita del territorio per rimanere legittimo, assieme ad una struttura di tipo gerarchico (top-down rispetto alla struttura al-qaedista, principalmente di natura bottom-up)

I nemici: la triade unitaria

“The alliance of cross worshipers, filthy Rafida and the apostate Arabs has gathered all its horses [military equipment] and men to fight God and His messenger, destroy the established features of our religion and raid against the Muslims’ honor”

Il nemico, nella triplice veste summenzionata, è presentato come un tutt’uno, un’alleanza che equalizza tre differenti tipologie di avversario. Il risultato è duplice:

1) annientarne le differenze interne rendendo l’avversario un target unitario e parimenti legittimo (da attaccare) in ogni suo singolo elemento;

2) sollecitare una pari coesione sul proprio fronte interno.

E’ interessante sottolineare che, come è noto, la nostra costante attività di frazionamento (per motivazioni, provenienza, livello di coinvolgimento nelle attività terroristiche, grado di radicalizzazione e così via) dell’avversario jihadista non è praticata in campo avverso nei nostri confronti. Al contrario, l’unificazione è la regola ed ottiene l’effetto, ad esempio, di garantire vasto consenso in materia di targetizzazione di determinati obiettivi.

Tenendo conto del costante utilizzo dell’elemento sorpresa per quel che riguarda le attività militari jihadiste in Iraq, certamente la chiamata alla armi con l’indicazione delle zone di intervento potrebbe sembrare singolare ma è da evidenziare come la sorpresa sia solitamente più collegabile alla rapidità di movimento sul terreno (resa possibile in Iraq dalle sue strade. E sono proprio le strade i fattori del controllo dell’IS su determinati territori più che il possesso reale di vaste aree) e sulla scelta del momento in cui agire più che sulla tipologia di target.

La frequente attitudine a testare il nemico e deviarlo dai target principali attraverso micro manovre dovrebbe, in ogni caso, avere un peso nell’analisi di testi come questo.

Tipologie richieste: l’elemento umano

“…headed by martyr seekers and inghimasies – those who submerse in enemy’s lines with no
intent to come back alive”

Il membro del network jihadista è diffenziabile, in modo basico, in questa sede, nelle due categorie principali di leader e “semplice” membro. I leader possono distinguersi come segue:

a) Leader di vertice (Al-Baghdadi / al-Afri)

b) Leader provinciale (legato ad una determinata area)

c) Leader settoriale (nella struttura del Califfato, in base a documentazione rinvenuta dalle forze irachene, vi sono membri di gabinetto deputati ad occuparsi di specifiche attività, come ad esempio il trasferimento degli attentatori suicidi o la cura delle famiglie dei martiri)

Anche tra i membri “semplici” vi possono essere svariate sfaccettature (mero supporter, combattente attivo, aspirante membro e così via).

Nel caso in specie è ricercato, a fini di utilizzo sul campo, il membro coinvolto attivamente nelle attività belliche.

In particolare, il martire è il tipo di combattente richiesto a questo stadio, nelle già determinate provincie, dal centro direzionale dell’IS. E’ una tipologia di relativamente facile gestione, con poche caratteristiche necessarie e privo di ricadute sostanziali per il network (sarebbe interessante, però, valutare se, nel caso in specie, si provveda o meno alla cura a posteriori della famiglia dello stesso martire), soprattutto in termini di sicurezza e di perdita di capacità globale (la ridondanza si applica appieno, infatti, a tale tipologia di combattenti).

Tale tipo di agente del network terrorista, infatti, in quanto già incasellato nella categoria dell’attentatore suicida, trova pochissimo margine di manovra nella sua sfera d’azione. Non deve decidere e non necessita di un adattamento all’ambiente in cui si trova ad agire, data la sua utilizzabilità in un lasso di tempo brevissimo. Non impara (non è soggetto, quindi, a processi come tentativo ed eventuale rettifica) ma acquisisce le informazioni sull’ambiente in modo indiretto, usufruisce cioè delle conoscenze altrui per portare a termine la propria missione.

La costruzione di modelli predittivi per quel che riguarda la sua possibile attività, la previsione, cioè, in senso generale, sono tanto meno probabili quanto più la decisione a monte dell’atto compete a lui. Nel caso in specie, invece, è pensabile che il martire sia gestito direttamente da un’autorità altra rispetto a lui e sarebbe, pertanto, ipotizzabile uno schema d’azione che inglobi non solo il singolo ma la categoria stessa dei martiri reclutati e messi in campo in questa fase del conflitto.

I caratteri di base richiesti sono di triplice natura: religiosa, caratteriale e professionale. Si eliminano in tal modo le asimmetrie interne al gruppo target attraverso l’aggregazione di determinate caratteristiche, considerate fondamentali, eliminandone altre che aggiungerebbero una non necessaria eterogeneità al campione.

“Make sure that they are religiously dedicated, patient ones and war experts who don’t look back, fight and don’t lay down their weapons until they get killed or God grants them victory”.

L’attaccamento religioso richiesto certamente non può sorprenderci, data la già evidenziata legittimazione della stessa natura fornita alla base del richiamo (“We, today, remind you to [obey] Almighty God”.)

Quanto alla pazienza essa è stata già, senza dubbio, concetto rilevante nei quattro anni di pianificazione delle attività messi in atto dall’IS dal 2010 che ha portato alla frantumazione delle forze di sicurezza irachene nel giugno 2014 (una campagna di assassini mirati, con target governativi e militari).

È da rilevare, però, come uno dei punti critici del reclutamento di nuovi membri di una rete terrorista sia proprio la necessità, talvolta ineludibile, di procrastinare l’azione, fattore che potrebbe demotivare i membri. È pur vero che ci si rivolge in questo caso a combattenti già inseriti nel network, ma la spinta all’azione è motivo impellente per mobilitarsi (e l’urgenza della chiamata legittimerebbe aspettative di azione a breve) e una forzata inattività potrebbe rendere instabile e meno affidabile il comportamento del combattente. Di più, il riferimento alla pazienza in questo caso accresce la probabilità che gli attacchi dei martiri chiamati siano già programmati come soggetti ad un controllo ed alle direttive dell’autorità.

Le competenze in attività belliche non possono anch’esse che risultare ovvie. Va detto, però, che una expertise in tal senso non andrebbe alla leggera sprecata dal network attraverso un attacco suicida. L’ipotesi è che, mentre le prime due caratteristiche si rivolgono essenzialmente al martire e agli inflitrati (che idealmente guidano il gruppo), l’ultima riguardi un altro tipo di manodopera richiesta: l’esperto combattente, insomma.

Altro elemento messo in chiaro è la volontarietà della mobilitazione (“When picking them, make sure that they voluntarily want to go [to fight in those two provinces]”). Forse la necessità di evitare dispersioni e di asseverare l’attaccamento alla causa è una preoccupazione attuale, permanendo differenze ideologiche interne in un parco combattenti fatto sia da stranieri distaccati dalla loro realtà d’origine che da locali portatori di rivendicazioni personali e di gruppo.

“Also, make sure not to give any promises that they are coming back or taking any leave before God grants his worshipers victory”

La quasi certezza del non ritorno (sia per i martiri che per gli inflitrati e gli altri combattenti) rientra nella visione apocalittica del conflitto spesso utilizzata dalla rete jihadista per garantire solennità al confronto. Non solo: in questo caso è prevedibile che si tratti di una profezia auto-realizzante, nel senso che, come già messo in luce, l’incrementata capacità delle forze irachene e la debolezza difensiva jihadista rendono necessarie azioni asimmetriche e senza ritorno.

L’impossibilità di ritirarsi anche solo temporaneamente dalla lotta segnala ancor di più la presenza di obiettivi a ragionevole termine, ponendo un limite (anche se indefinito nello specifico ma simbolizzato dalla vittoria) alle attività belliche.

Registrazione

“The registration of the brothers who wish to join should take place in the office of Preaching and Mosques in Manbij – go right on the second street after crossing al-Lampa Circle going south.
The registration should be opened for 48 hours after receiving the statement”.

Le 48 ore di tempo per la registrazione suggeriscono, una volta di più, tempi rapidi e predefiniti per l’azione, cosa che, a onor del vero, contrasterebbe con il concetto di pazienza già evidenziato. È ipotizzabile che, seppur il termine sia fissato per tutti i volontari, ciò sia fatto al fine di valutare le forze a propria disposizione e che le azioni degli stessi vengano poi differite in base ad esigenze contingenti. La registrazione fisica dei volontari, in una location specifica unita ai tempi ristretti potrebbe indicare che (nonostante la diffusione via Twitter) ci si indirizza a membri già presenti sul territorio (come si evince anche dal coinvolgimento, in senso valutativo, dei capi locali).

Conclusioni

In base alla disamina, alcuni concetti (non nuovi) troverebbero conferma nel testo:

– Debolezza della difesa IS
– Criticità dell’elemento territoriale (possesso)
– Carenza di risorse umane (martiri e combattenti attivi)
– Popolazione come centro di gravità (presa sulla società)

Tali elementi sono interdipendenti e contribuiscono a fornire un quadro della situazione che ridimensiona parzialmente il peso dell’IS nell’area e potrebbe suggerire modalità di azione efficaci.
La debolezza dell’IS per quel che riguarda la difesa è fattore da tenere sempre in considerazione riguardo alla valenza reale degli avanzamenti dello stesso e alla valutazione delle contromisure da attuare. Bisogna tenere presente la frammentazione interna della sua struttura difensiva ed il suo appoggiarsi ad alleanze labili e facilmente mutevoli.

Un rete terrorista globale come Al-Qaeda vedeva il territorio come zona di rifugio e di addestramento. In tal senso, l’elemento territoriale era ridondante: perso un safe haven era sempre possibile stabilirne uno differente, con le stesse funzioni del precedente.

Non è così per l’attuale IS: il territorio è il Califfato stesso. Il network terrorista come Stato è obbligato ad avere l’ossessione per il controllo (o a fornire l’idea dello stesso) che si traduce anche in gesti simbolici (ad esempio nella bandiera issata su edifici chiave e simbolo, così come fatto anche dalle forze irachene con la bandiera issata sull’ospedale di Tikrit durante le operazioni per riprenderne il possesso) e nella paura costante di perdere frazioni di territorio che sono le sole a giustificare la sua esistenza.

Una volta di più è importante mettere il luce in cosa si estrinsechi esattamente la presa jihadista sul teritorio nelle zone in oggetto e se essa sia spesso limitata alle strade più che ad aree fisiche estese. Per demolire la stessa identità “statale” jihadista bisogna mettere in evidenza (mediaticamente) ogni singolo cedimento a livello territoriale.

Quanto alla richiesta di nuovi martiri, sin dalla cosiddetta rinascita dell’ISI del 2010, l’uso massivo del combattente suicida (sebbene non esclusiva) è stato il perno di una strategia mirata a colpire, disorientandolo, il nemico, annientando il suo morale. Tanto più, per colpire un nemico convenzionale con tattiche asimmetriche, difficili da contrastare con mezzi classici.

Un rinnovato focus sulle tecniche suicide può significare un indebolimento della facciata dell’IS come esercito “reale” e, forse, una sua minore mobilità, con la necessità di mettere in atto attività di disturbo più che operazioni tipiche di una forza ben organizzata ed omogenea.

I martiri chiamati ad agire in questo caso sembrerebbero una sorta di mutazione genetica di lupi solitari, poiché inglobati in una sovrastruttura e quindi destinati a perdere la propria valenza di agenti indipendenti.

La chiamata collettiva può significare l’organizzazione di attacchi simultanei di concezione e direzione centrale (il che potrebbe renderli più visibili nella fase preparatoria e, magari, più prevedibili in base alla strategia globale contingente del network).

La richiesta potrebbe anche confermare la mancata presa sulla popolazione locale irachena (si è già detto della labilità di certe alleanze) dovuta ad uno sfruttamento imperfetto delle divisioni della società che rende impossibile o molto difficoltoso il reperimento di risorse umane direttamente in loco. Simbolizza, quindi, un fallimento jihadista nelle tattiche e nella strategia di inserimento nella conflittualità locale come elemento di disturbo ma anche di aggregazione.

Difficilmente prevedibile, specialmente a questo stadio, un’evoluzione verso l’ordine, è più agevole immaginare una attrazione verso determinati stati contingenti, e auspicando il superamento del caos (quale poteva configurarsi nell’Iraq immediatamente dopo la caduta di Saddam Hussein) è ipotizzabile che si giunga a ciò che viene definito come “orlo del caos”, un equilibrio dinamico, instabile e aperto al cambiamento. In tale equilibrio è importante agevolare l’uscita di scena dell’IS mettendo bene in chiaro la sua estraneità allo scenario iracheno, la scarsa presa sulla popolazione, la sua debolezza di Stato imperfetto e “virtuale” e la sua perdita costante di materiale umano, unica base reale della sua forza.

Elisabetta Benedetti

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Foto: RFE/RL; Mesopotamia, Islamic State Times

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