By Elisabetta Benedetti
Collaboratore di ricerca presso l’Università di Trieste
Master ISSMI, Dott. Ric. Scienze strategiche
Già prof. a contratto di Studi Strategici – Università di Torino
Uff.Ris.Sel. E.I.
Riflessioni sul manifesto “Lo Stato Islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare”
Concetti a premessa
Posto che non condivido il clamore mediatico intorno alla scoperta, peraltro tardiva (il testo sembrerebbe essere stato pubblicato online a novembre/dicembre 2014), del documento menzionato, né la sua interpretazione quale documento destinato al reclutamento in Italia, ho deciso comunque di mettere su carta alcune mie impressioni. Più che un’analisi, quindi, si tratta di una messa in risalto di alcuni concetti che potrebbero fornire spunti interessanti di approfondimento.
Per fornire al lettore un quadro più completo, frammenti di frasi scritte/riproposte dall’autore sono riportati nel virgolettato tra parentesi.
Informazione come terreno di conflitto
Come ben tutti sappiamo, la guerra contro i movimenti jihadisti si configura sempre più non solo come confronto asimmetrico sul campo ma anche come guerra di informazione. Tale dimensione, ormai, ove i mass media e social network hanno un peso notevole se non esclusivo, affianca quelle cinetiche ed è in grado di modificare le sorti di un conflitto nel senso più ampio del termine.
Il “manifesto” qui in discussione vorrebbe inserirsi in tale confronto fornendo, nell’intenzione dell’autore (“il vostro fratello in Allah, Mehdi”) dati utili al lettore per difendersi dalle informazioni errate sul Califfato (“la maggior parte dei Musulmani fuori dal Dawla al-Islamiya – specialmente in Occidente- è caduta nella trappola della guerra mediatica contro lo Stato Islamico” e, ancora, “La disinformazione sullo Stato è così pesante e ben studiata che anche a pochi chilometri dal Dawla al-Islamiya non si capisce che cosa realmente succede dall’altra parte”).
Concetti principali del testo
1) Combattere la disinformazione
2) Il Califfato è un vero Stato
3) Il Califfato funziona come uno stato in tempo di pace
Missione dell’autore è, come già detto, correggere la percezione all’esterno dello Stato e informare il lettore.
Concetto cardine (per la giustificazione del quale l’autore ha prodotto un testo parallelo, commentato alla fine di questo documento) è l’affermazione che lo Stato Islamico è un vero e proprio Stato, con apparati e tratti caratteristici tipici.
Il Califfato (Stato) non è concepito come temporaneo o costruito in tempo di guerra e perciò atto a fornire servizi prettamente “d’emergenza” (e solo quelli) ai cittadini. Al contrario, esso fornisce servizi tipici di una situazione di pace, ove il cittadino è pienamente garantito nei suoi diritti. Fornisce non solo sicurezza a livello interno e contro l’aggressione esterna ma provvede, come vedremo più avanti nel testo, anche a settori come quello educativo e di indirizzo comportamentale.
Reclutamento in Italia?
Trovo abbastanza difficile, in generale, collegare la mera produzione di un testo “informativo” in lingua italiana al reclutamento.
Questo può essere, senz’altro, uno degli strumenti ausiliari di reclutamento ma solo a supporto di altra documentazione, di ben diverso impatto. Il testo, in primis, non indica nulla riguardo i possibili punti di contatto e/o punti di accesso per aggregarsi al network. Non mette in luce le possibilità di training alle armi (se non nel riferimento all’addestramento dei bambini e nel link ad un video sul Kazakistan). Non si riferisce in particolare all’Italia, non tenta di creare frizioni nè biasima il comportamento locale verso i musulmani. L’analisi della situazione in loco è pari a zero.
La tanto ripresa menzione a Roma (a fianco di Costantinopoli) ritengo abbia una valore di reiterazione di concetti e uso di termini simbolici più che significare una targetizzazione specifica.
Non mi sembra nemmeno che il testo sia tarato su un pubblico ricevente avvezzo a vivere in una società occidentale: questo perché non mi è chiara l’esaltazione di taluni servizi (quelli al consumatore, il ruolo protettivo della polizia ecc) che sono considerati scontati nelle società come quella italiana.
Sembra, a mio avviso, un testo Califfato-centrico (e non vi è prova alcuna che l’autore ivi risieda) di valore, per l’appunto, divulgativo e non attrattivo.
Un lupo solitario della comunicazione?
Già nella premessa viene chiaramente espresso come il documento sia stato prodotto su iniziativa personale di un soggetto, connesso egli o meno alla rete jihadista non è elemento provato, in nessuna parte del testo. Quel “ho deciso di scrivere questo testo” denota l’iniziativa personale di un singolo.
Forse il soggetto semplicemente combatte uno dei 4 tipi di jihad (e dei tre definiti collettivamente come “grande jihad”), specificatamente quella incentrata sulla “parola” che in questo caso viene usata per ottenere il benessere collettivo attraverso la diffusione di informazioni corrette o correttive sul Califfato, ma questa è una divagazione personale.
La documentazione fotografica, le “interviste”, le opinioni riportate non sono mai indicate come apprese di prima mano – l’ipotesi più probabile è che siano state raccolte sul web. Ancor meno, come verrà spiegato più avanti, esiste prova che il soggetto scrivente si trovi sul territorio italiano o abbia con esso legami di qualche tipo.
Ancora, i livelli di produzione jihadista riscontrati soprattutto di recente (video, riviste o ebook) sembrano di gran lunga superiori a quelli riscontrabili nel presente testo che si presenta come basico e con formattazione non professionale.
Un testo in “perfetto” italiano (?)
Date le imperfezioni riscontrate a livello grammaticale e sintattico, non ritengo che il testo sia frutto, come da più parti invece ipotizzato, di un autore madrelingua.
La traduzione del testo originale da altra lingua all’italiano (perchè di questo, a parer mio, si tratta) può essere facilmente il frutto di:
1) una collaborazione temporanea online tra soggetti (produttore del testo, probabilmente in inglese visti certi termini, e traduttore), nell’ottica del reperimento di risorse interne al network (si rammentino le vere e proprie “offerte di lavoro” pubblicate in passato anche da Al-Qaeda e con le quali venivano richieste particolari professionalità).
2) Semplice utilizzo di un traduttore online (come l’uso di alcuni termini e la mancata conversione di altri sembrerebbe suggerire).
Se l’autore del testo non fosse nativo ma si trovasse sul nostro territorio, non è nemmeno chiara la già notata assenza di riferimenti alla situazione in loco.
Conclusioni della premessa
Come detto, lo scopo del testo è di informare e confutare la “propaganda” negativa dei nemici dello Stato Islamico.
Purtuttavia, il testo difetta di argomenti sostanziali, e la mancanza di approfondimento e di dati, anche numerici (tranne alcuni esplicitamente ripresi da interviste condotte da altri), denota un approccio quanto meno superficiale all’argomento discusso.
Al di là della reiterazione del concetto di Stato, manca totalmente il riferimento ad una struttura burocratica di sorta, se non nella strutturazione (vagamente delineata) della polizia.
Il mio pensiero sull’autore è che si tratti di uno studente intenzionato a fornire il proprio supporto alla causa jihadista ma privo di un effettivo avallo da parte del network stesso o del Califfato che si propone di difendere (resta inteso che, come accaduto negli attentati perpetrati da singoli individui, l’avallo/validazione/dichiarazione di appartenenza al network può avvenire anche a posteriori. Altresì, tale validazione può realizzarsi ad opera del “nemico” grazie ai media “nostrani” che valorizzano l’azione del singolo …).
In ogni caso, sin dalla prima pagina, precedente alla premessa, si parla di Stato e cittadini – elementi che si sostengono a vicenda.
Se andiamo a recuperare il concetto di “vincere i cuori e le menti”, possiamo rammentare come fornire servizi ai cittadini sia un modo per ottenere il loro supporto (uno dei paragrafi è proprio intitolato “Lo Stato Islamico, uno stato che è entrato nel cuore dei Musulmani”). In modo basilare, il testo vorrebbe dimostrare che nell’ambito dell’auto-proclamato Califfato ciò stia attualmente avvenendo.
Riflessioni sul testo
Premessa
La premessa contiene 3 concetti principali:
1) “Lo Stato Islamico dalla data della sua formazione (13 ottobre 2006) è sempre stato uno Stato che supporta le sue spese (militari e non) attraverso il fay’ e al-ghanima”
2) Lo Stato Islamico è supportato anche “dai Musulmani benevoli che adempiono all’obbligo del Jihad combattendo con i loro beni”
3) I nemici dello stato Islamico avrebbero dichiarato: “Se vogliamo abbattere l’ISIL, lo dobbiamo combattere come uno stato. (…) e per quanto riguarda i soldati, molti dissero: Non stiamo parlando di un’organizzazione ma di un esercito”.
Il punto 1 sottolinea come lo Stato Islamico sia indipendente, non abbia sponsor (non lo si possa accusare di averne), ma si mantenga attraverso le conquiste sul terreno. A tale proposito, si entra poi nel merito della distinzione del bottino di guerra tra fay’ (ottenuto dal nemico che fugge) e ghanima (ottenuto dal nemico che oppone resistenza e viene sconfitto).
Il punto 2 è interessante perché fornisce una alternativa allo Jihad che spesso noi consideriamo, erroneamente, principalmente azione concreta di combattimento. L’alternativa qui offerta è il combattere attraverso i propri beni, una possibilità che allarga il concetto di combattente effettivo e che dovrebbe farci riflettere su come considerare quelli che, sui nostri territori, supportano in qualche misura attraverso i propri introiti o gestendo siti web personali i jihadisti impegnati in azioni più cinetiche o il Califfato stesso.
Il concetto espresso nel punto 3 è significativo: attribuendo al nemico una data visione di se stessi, ci si autodefinisce. Il trucco è che sia il nemico stesso ad identificare l’ISIS come uno stato, attribuendo ad esso le caratteristiche relative (presenza di un esercito in primis). Esiste, in effetti, un dibattito sull’opportunità dell’uso della sigla ISIS (o ISIL, il focus è sulle prime due lettere, in ogni caso) dato che essa rimanda al concetto di Stato, de facto legittimandone l’esistenza.
Stesso discorso per le forze armate: ormai da anni si discute sulla necessità di abbandonare un approccio convenzionale (tipico degli scontri fra Stati ed eserciti organizzati) per “matchare” la struttura a rete dell’organizzazioni terroristica, nell’ottica di una conflittualità che appare sempre più asimmetrica.
Va rimarcato, a questo proposito, però, che nell’articolo “In Battle to Defang ISIS, U.S. Targets Its Psychology” apparso sul New York Times il 28 dicembre 2014 e riferito alle richiesta del Gen. Michael K. Nagata, (Comandante delle Forze Speciali Americane nel Medio Oriente) di expertise che lo aiutassero a comprendere l’ISIS in tutta la sua pericolosità, si fa riferimento ad un nemico complesso, un’organizzazione ibrida ed un esercito convenzionale. L’esercito del Califfato è, quindi, una forza armata classica, da affrontare con metodologie convenzionali? Considerandolo in tal modo, non si legittimano le sue pretese di esser Stato?
Altro spunto interessante, in questa parte del testo, è il riferimento ai danni subiti dalle “proprietà dei Musulmani” a causa degli attacchi della coalizione, perché tende a toccare/coinvolgere i singoli nella perdita di beni collettivi.
Lista delle fonti delle informazioni contenute nel testo
Sono riportate in questa sezione (senza elaborazione né dettagli funzionali/organizzativi) tre “organizzazioni mediatiche ufficiali dello Stato Islamico”, due rivolte alla produzione di video e la terza anche con funzioni di traduzione e produzione di riviste (Al-Furqan Media, Al-E’tisam Media, Al-Hayat Media Center).
Il tentativo può essere, allo scopo di fornire una chiave di verifica per le informazioni che il lettore può acquisire, di limitare il numero di “fonti ufficiali” che producono propaganda. Colpisce come non vi siano esempi di supporto alle attività di tali organizzazioni, ovvero esempi concreti di materiale a larga diffusione se non qualche link a fine testo, un report/intervista di Al-Furqan Media sulla produzione del pane e un “Report ufficiale di Al-Hayat Media nella città di ar-Raqqa”.
Al-Hayat Media, stabilito a maggio scorso, è il braccio mediatico dell’ISIS, piuttosto noto per la diffusione di video di alta qualità (il primo dei quali è apparso a giugno ed è intitolato “There is No Life Without Jihad”) e strumento attraverso il quale l’ISIS ha superato i disturbi arrecati al suo piano di comunicazione dalla chiusura di account sui social network (questi ultimi sono stati largamente sfruttati, infatti, per diffondere il messaggio jihadista). Similarmente ad Al-Qaeda con la ben nota rivista Inspire, la stessa organizzazione produce la rivista in lingua inglese Dabiq (nome significativo perché riferito al luogo dove Maometto profetizza avverrà lo scontro finale tra 80 nazioni ed una sola nazione musulmana).
Nel report di Al-Hayat Media che segue nel testo (con il sottotitolo di “La diffusione del Manhaj corretto”) si punta a sottolineare l’aspetto formativo dell’ISIS: “Sono state aperte istituzioni comprensive islamiche dove vengono tenuti seminari educativi e studi islamici per definire e consolidare la verità fondamentale del Tawhid”.
Nel testo si parla di “correggere” la comprensione che la gente ha della religione e questo è un aspetto fondamentale e da non trascurare perché mette in luce, una volta di più, la necessità di chiarire e indirizzare, “intromettendosi” nel rapporto tra fedele e divinità.
Classico è il riferimento alla dirigenza politica corrotta che è lontana dalla verità religiosa e ha pertanto, a sua volta, corrotto la popolazione ad essa soggetta (“risanare il danno causato dal regime che passò anni a corrompere la Ummah in Siria”).
Nel prosieguo del testo, si intende riportare la “copertura mediatica” fatta da Al-Hayat Media dei seminari formativi organizzati a ar-Raqqa nell’ambito di un “miglioramento della società”.
Al di là dei numeri dei “titolati” riportati, vale la pena notare quel poco di strutturazione organizzativa indicata (la pubblicizzazione del seminario) e la non necessità del prerequisito per l’imaam o il khateeb di aver dichiarato la Bay’a allo Stato Islamico.
Importante potrebbe essere, a fini di ricerca, la menzione dell’utilizzo, come strumento formativo, del testo “L’Essenza dell’Islam, Tawhid e il Messaggio” (Sheykh ‘Ali al-Khudair).
Nell’ottica di far presente come il Califfato funzioni come una struttura statale definita e autosufficiente, viene ribadito come moschee e stipendi degli insegnanti siano a spese dello stato.
Un servizio che lo Stato Islamico, quindi, fornisce e garantisce.
Le parti successive (Incontro con i dipendenti del Comitato Islamico dei Servizi; Intervista ad Abu Salih al-Ansari, il Capo dell’Ufficio per la Protezione del Consumatore; Intervista ad Abu Muhammad, il Capo della Divisione per i Reclami del Consumatore) sono paragrafi la cui unica utilità può essere, forse, nell’intenzione del produttore del testo, di validare, una volta di più, l’esistenza effettiva di uno Stato. Uno Stato che si prende cura dei cittadini anche attraverso strumenti che assomigliano a quelli classici delle “democrazie” come noi le intendiamo (la protezione dei consumatori, appunto).
L’applicazione della Shari’a e l’autorità sul territorio
Il concetto della Shari’a (della sua applicazione) viene qui confermato essere legato al controllo di un territorio (ove vengono, all’uopo, istituiti tribunali Islamici).
Viene ivi rimarcata la sua applicazione con equità, senza distinzioni, ad esempio, tra un cittadino ed un emiro.
Mi colpisce, a titolo personale, l’assenza di menzione alle diverse tipologie di azione in base alla Shari’a (obbligatorie, consigliate, sconsigliate, libere) ma questo può essere funzionale alla brevità del testo e confermare che esso è rivolto a chi è già parte della religione, più che a quelli che vorrebbero ad essa convertirsi.
Nel documento si fa poi riferimento al potere esecutivo, esercitato attraverso differenti organi di polizia (es: la Hisba, una tipologia di polizia Islamica atta ad ordinare il bene e proibire il male).
La menzione a “poliziotti specializzati nel controllo degli accessi delle città e dei villaggi” rimanda, ancora una volta, al concetto di controllo fisico del territorio.
La Hisba, la polizia che ordina il bene e proibisce il male
C’è qui una giustificazione indiretta della distruzione di beni artistici: la lotta contro idolatria e politeismo, infatti, giustifica il distruggere qualsiasi tempio o tomba (l’autore sottolinea come il Corano e la Sunna forniscano prova di ciò).
La messa in risalto del fatto che tra le falsità che dividono i musulmani ci sia la pratica della magia potrebbe essere letto come un indicatore della provenienza geografica dell’autore, originario forse di paesi ove tale pratica ha un certa diffusione.
Risalto viene dato alla “neutralizzazione delle attività di produzione e spaccio di sostanze intossicanti o stupefacenti”. Manifesti (“grafiche di propaganda” che, dice lo scrivente, “migliorano anche il look dei quartieri dando loro un aspetto puramente islamico”) vengono esposti per dissuadere i cittadini dal consumo di sostanze dannose. E qui si ritorna a far apparire il Califfato come uno Stato che agisce come se si trovasse in tempo di pace e parte delle sue funzioni in questo senso sono espletate, appunto, dall’Hisba, che ha un vasto ruolo prioritario di indirizzo e di controllo nella società del Califfato: “I Musulmani vengono consigliati e corretti dalla polizia su quello che può essere un comportamento individuale fino ad arrivare al modo di vestirsi”.
Non manca, inoltre, il riferimento al fatto che “la polizia Islamica è vista più come un organo di collaborazione da parte dei cittadini” anche considerato che, specialmente nel caso della polizia stradale, essa fornisce sicurezza e gestisce il territorio “pattugliando nelle strade e posizionando posti di blocco”.
Addirittura, il ruolo della polizia è visto come un ruolo subito successivo a quello divino: “La gente confida nella loro abilità e si rivolge a loro per chiedere aiuto dopo ad Allah”
Nell’intervista con Abdul-‘Abbas ash-Shami, il Capo della Polizia Islamica della Provincia di ar-Raqqa, si tenta di dipingere con toni rosei la detenzione “La più lunga durata di detenzione per una persona è di una settimana” e ancora “Se non si riesce a verificare la colpa del detenuto allora lo si rilascia. Se è stato detenuto per più di una settimana, gli viene compensato il danno per ogni giorno aggiuntivo per cui è stato imprigionato”.
Potrebbe questo essere riportato soprattutto in base alla sua valenza comparativa (si pensi ai tempi detentivi ad Abu Ghraib o Guantanamo).
L’autore sottolinea anche che i “crimini si abbassano generalmente del 90% nei territori da loro controllati”.
Nel paragrafo seguente, “Altri servizi offerti ai cittadini” l’autore mette in risalto come l’ISIS sia in grado di prendersi cura dei propri cittadini nonostante la presenza di nemici esterni, sottolineando come sia “un obbligo, per l’autorità Islamica, il curarsi dei bisogni dei cittadini a discapito del numero dei nemici” (quanto ai bisogni strettamente alimentari, un paragrafo è dedicato alla produzione del pane e ivi si legge che “Lo Stato Islamico ha creato panifici e distribuito punti di distribuzione del pane per i suoi cittadini”). Emerge, in questo caso, il fatto che, nonostante in tutto il testo si presenti lo Stato Islamico come stato che opera come se fosse in una situazione di pace, la situazione reale sia di conflitto.
L’accento sui cittadini e sulla cura di questi nelle attività routinarie è ancora ribadito dall’autore quando dichiara che “uno stato non può essere fondato se non c’è una parte di Musulmani che rimangono insieme ai cittadini per sostenerli nella loro vita quotidiana”.
La raccolta della Zaqat (la decima)
Fatto salvo che il pagamento della decima (da fornirsi in beni ma anche in denaro)non sia in alcun modo da considerarsi come una tassa (“Le tasse sono illecite in uno stato Islamico, la Zaqat non è una tassa ma una quantità di beni che Allah ci ha imposto di versare in modo da purificare i nostri beni ed aumentare il nostro rizq”) ma sia comunque dovuto (è un “obbligo da parte di Allah -gloria a Lui l’Altissimo-, un obbligo esplicito descritto nel Sacro Corano” e ancora “Questo tipo di dovere è fard ‘ayn, cioè obbligatorio su ogni singolo Musulmano maturo e sano. Lo Stato Islamico non ha imposto nessuna innovazione in tutto ciò, questo è l’ordine di Allah”), l’autore sottolinea l’aspetto organizzativo “statale” della questione (“Lo Stato Islamico ha organizzato e distribuito, nelle sue varie province, dei responsabili della raccolta della Zaqat”) e il supporto dello Stato stesso (che informa anche i cittadini dell’obbligo del pagamento) con la distribuzione di macchine agricole (lo Stato ha distribuito “ai proprietari terrieri delle macchine specializzate per i lavori agricoli tra cui le mietitrebbiatrici”).
Lo Stato Islamico e la gestione dell’istruzione
L’autore qui esalta l’universalità dell’educazione impartita dallo Stato Islamico e il suo essere primo stato davvero “Islamico” ( “La politica di Abu Bakr al-Baghdadi come anche il suo precedessore Abu ‘Umar al-Baghdadi -che Allah abbia misericordia di lui- è quella di curare ogni singolo aspetto dello Stato Islamico affinché possa essere veramente esser chiamato come tale. Nel Dawla tutti ricevono istruzione, di tipo religioso o formativo per una professione, che sia il Musulmano giovane o meno giovane, maschio o femmina. È il primo stato veramente Islamico anche dal punto di vista dell’istruzione: ad-Dawla al-Islamiya ha modificato e ritoccato tutti i programmi delle varie scuole in modo che non venga insegnato nulla che vada contro i principi Islamici.”) grazie alla modifica di programmi scolastici e cancellazione di talune materie (“Esempi di materie rimosse sono filosofia e scienze politiche”).
La produzione energetica
L’autore sottolinea qui il possesso di fonti energetiche da parte dello Stato (gas naturale: “Ad-Dawla al-Islamiya controlla gran parte dei giacimenti di gas naturale nel Levante”) e di raffinerie di petrolio, dichiarando che lo sfruttamento delle stesse va a beneficio della popolazione, specie delle fascie più povere che godono di un servizio di distribuzione gratuita.
L’ISIS viene descritto quindi, ancora, come Stato autosufficiente ed attento ai bisogni dei cittadini i quali, siano essi Musulmani o no, beneficiano delle conquiste statali (“La popolazione ha tratto grande vantaggio da queste conquiste, Musulmani e non Musulmani cittadini del Dawla”).
Ristrutturazione, pulizia e abbellimento
La necessità di infrastrutture e di reali prospettive lavorative (“Anche i membri delle famiglie dei Muhajirin – coloro che hanno fatto la Hijra – hanno attualmente occupazioni tra i lavori gestiti dallo Stato Islamico”) sono due capisaldi che l’autore si propone di utilizzare per provare, una volta di più, l’esistenza di un vero e proprio Stato e si tratta, in questo caso, di “una società, uno stato che gira intorno alla Testimonianza”
Riferimento viene fatto ad al-Baghdadi ed al suo intento di costruzione di una tale tipologia di Stato con parallela cancellazione di altrui tirannie e idolatrie (“La strategia dello Sheykh Ibrahim al-Badri – Abu Bakr al-Baghdadi – che Allah lo protegga- è quella di pulire la Terra dai tiranni e la loro idolatria democratica, creare le fondamenta di uno stato e costruire la sua struttura, tutto ciò con il Corano che guida e la spada che supporta.”).
Emerge qui una sorta di richiamo, non esplicito, ad individui esterni dovuta dalla necessità di attrarre determinate professionalità utili alla conduzione delle attività quotidiane dello Stato (“Lo Stato Islamico ha in suo controllo dighe, raffinerie di petrolio, centrali di gas ecc. Ha bisogno di un organico che abbia determinate competenze. Non a caso l’Emiro dei Credenti Abu Bakr al-Husayni aveva annunciato all’intera Ummah:”Accorrete, oh Musulmani, verso Allah muhajirin – emigranti -, e indirizziamo in particolare il nostro annuncio ai sapienti e i du’aat, e su tutti i giudici e gli specialisti nelle attività militari e gestionali, i dottori e i geometri. Li chiamiamo e li ricordiamo di temere Allah – per l’obbligo della Hijra -).”
Viene fatto anche un chiaro riferimento, in chiave comparativa, alla società su cui si basa l’ISIS e a quella “corrotta” altrui, presentando la prima come un’opportunità per un Musulmano di dare il proprio contributo attivamente attraverso la propria presenza fisica (“Finalmente i Musulmani sinceri hanno la possibilità di essere un “mattoncino” che compone la società che segue il Corano e la Sunnah, abbandonando quella parte del mondo dove i valori vengono a mancare, una società dove la creazione viene adorata all’infuori del Creatore”).
Più che un reclutamento, quindi, un invito a trasferirsi.
Lo Stato Islamico rianima l’arte Islamica: Grafiche Islamiche al femminile
“La donna dal punto di vista islamico è considerata una regina, un gioiello da preservare, così lo Stato Islamico ha voluto sottolineare questo aspetto creando grafiche dedicate alle sorelle”.
Questo è l’unico riferimento fatto al genere femminile nel testo e, presumendo una volontà di attrazione a monte, balza all’occhio la mancanza di elaborazione concettuale in termini di genere (gli sforzi propagandistici per attirare donne nell’ISIS sono massicci, si pensi al mito dell’Al-Khansa Brigade, una forza di polizia femminile operante a Raqqa e Mosul, mito che attira particolarmente giovani donne britanniche. In realtà, parrebbe che il ruolo riservato alle donne “in entrata”, tutt’altro che attivo, sia limitato allo sposare uno jihadista e ad occuparsi della famiglia).
In breve, l’autore non sembra allinearsi a quel ruolo attivo che l’ISIS promette alla donna a fini propagandistici. Potrebbe questo essere un segnale in più per ipotizzare che l’autore difetti di un avallo diretto da parte dello Stato Islamico.
Invito al Jihad sulla Via di Allah
Questo paragrafo non contiene argomentazioni a supporto del jihad ma solo 4 immagini di manifesti che incitano allo stesso allo scopo di dimostrare come lo Stato Islamico assolva al suo compito di spingere i credenti alla lotta. Nel paragrafo seguente, “Grafiche contro la nuova campagna sullo Stato Islamico”, sono riportate altre immagini di manifesti esposti dalla Stato per rassicurare i cittadini sulla vittoria contro i nemici (“Lo Stato Islamico rassicura la sua popolazione: verrà sconfitta in shaa Allah l’offensiva dei crociati e degli apostati arabi e e ad-Dawla si espanderà verso i loro territori”).
Parimenti viene fatto, a fini educativi, in “Invito alla rettitudine e all’allontanarsi dalla fitna” (“ad-Dawla invita calorosamente i suoi cittadini a partecipare a corsi e ai seminari comprensivi islamici.
L’incitamento al seguire il Corano e la Sunnah parte anche dalle strade e dai quartieri, le seguenti grafiche sono atte a questo”), seguito da due pagine di immagini del paragrafo “Altre foto in giro per lo Stato Islamico”.
Uno stato che dà il massimo per i Musulmani
Si riprende qui il concetto di sfruttamento ottimale da parte dello Stato islamico (in contrasto a quello fatto da altri Stati) delle risorse a beneficio esclusivo della popolazione, e questo approccio pro-popolazione viene usato come ulteriore elemento di legittimazione per lo Stato stesso (“ad-Dawla al-Islamiya è stata fondata per ridare ai Musulmani quello che è loro”), uno Stato definito “vera e propria rivoluzione” come se i servizi da esso offerti fossero, nelle parole dell’autore, “fantascienza”.
Nei paragrafi “Il ritorno del Dinar e del sistema economico sulla metodologia profetica” e seguenti (Le caratteristiche della nuova moneta, Alcune analisi sulla nuova valuta, Lo Stato Islamico informa i suoi cittadini sulla nuova valuta), l’autore parla di come l’epoca “d’oro” dei Califfi venga recuperata anche attraverso il recupero dello stesso sistema economico (“Al-HamdulilLeh, proprio nel periodo in cui sto scrivendo questo testo, lo Stato Islamico si sta preparando per un ulteriore progresso in shaa Allah: verrà riadottato in maniera completa il sistema economico finanziario adoperato dai Califfi che ci sono stati precedentemente”).
Offre poi un riassunto di alcune analisi prodotte dallo Sheykh Mizanur Rahman, predicatore di Islam in Inghilterra ed ex-studente dello Sheykh Omar Bakri Muhammad, che riguardano le conseguenze dell’impiego della nuova valuta e confrontano il sistema economico capitalista con quello Islamico.
Vengono ripostate le affermazioni dello Sheykh sull’assenza di volti celebrativi sulle monete, per evitare personalismi e creazione di idoli, a favore di simboli islamici.
L’introduzione della valuta è inserito, principalmente, nell’ottica dell’indipendenza assoluta dello Stato Islamico (“i Musulmani possono iniziare ad avere una completa indipendenza da qualsiasi Paese o unione nazionale applicanti leggi all’infuori di quelle di Allah”).
Lo Stato Islamico, uno stato che è entrato nel cuore dei Musulmani
La forza/fascino dello Stato Islamico deriva anche dal fatto che esso agisce come elemento di stabilizzazione in un’area frammentata e conflittuale (“Lo Stato Islamico, per grazia di Allah, gode veramente di buonissima reputazione, soprattutto in Iraq che dopo 10 anni di ricerca di soluzioni pacifiche con il regime safavide, gli Ahlul-Sunnah hanno capito: la loro unica speranza è lo Stato Islamico e la sua metodologia: il Corano e la spada contro gli oppressori”).
Lo Stato Islamico, uno stato che ha sfondato qualsiasi confine
Lo Stato Islamico è dipinto dall’autore come uno Stato unitario, che accoglie nuovi cittadini senza distinzione di provenienza o razza, educa i loro figli anche in senso religioso, ed è basato sull’unità e non su gruppi o fazioni (“Non esiste fazione o gruppo nello Sham e anzi nel mondo dove si sono uniti così tanti Musulmani dalle diverse origini. Per grazia di Allah, una buona novella per i credenti: Muhammad in un Hadith corretto disse che lo Sham è il miglior luogo per i credenti e che i migliori dei Musulmani si riuniscono nello Sham”).
Questo è un punto interessante perché, dall’esterno, le attività dell’ISIS sembrano piuttosto indirizzate a frammentare e dividere.
Il Manhaj dello Stato Islamico nelle parole dei suoi comandanti
Nell’intento dell’autore, la parola viene poi data a figure in posizioni di comando, riportando alcune loro considerazioni pubbliche: il Khalifah Ibrahim Ibn Awwad (Abu Bakr al-Baghdadi), di cui si trascrivono stralci del discorso fatto a Mosul (“Mi hanno scelto come vostro governante e non sono il migliore tra voi o migliore di voi. Se mi vedete sulla Verità allora supportatemi e se mi vedete sulla falsità allora consigliatemi e aiutatemi; obbeditemi finché obbedirò ad Allah nel governarvi. E se non Gli obbedisco, allora non avete dovere di obbedirmi”.Mi risulta che queste siano le parole, anche se formulate in modo leggermente diverso, pronunciate dal primo califfo Abû Bakr – 632/634 – nella sua allocuzione d’inizio mandato), il portavoce ufficiale, lo Sheykh & Mujahid Abu Muhammad al-‘Adnani, l’Emiro di al-Qa’ida in Iraq, lo Sheykh & Mujahid Abu Mus’ab az-Zarqawi, il Ministro di Guerra dello SI d’Iraq, lo Sheykh Abu Hamza al-Muhajir.
Le parole di al-Baghdadi “Non sono mai stato Emiro di una delle vecchie fazioni, ma la gente si è unita e non ci ha lasciato stare finché ci hanno scelto a causa del khayr che vedono in noi” sembrerebbe mettere in risalto la spinta “dal basso” che ha creato i leader in un anelito di unificazione. Verrebbe qui rimarcata, quindi, la legittimazione popolare dello Stato.
Un messaggio al lettore
Questa parte conclusiva è quella dove emerge meglio l’esortazione ad unirsi al Califfato.
E’ una responsabilizzazione nei confronti del lettore affinchè abbia un ruolo attivo nel supportare lo Stato Islamico, la Ummah, tenendo presente la divisione dell’umanità in due campi (“L’umanità è divisa in due e due soli campi: un campo di Iman esente da ipocrisia e un campo di miscredenza esente da Iman”).
La celebrazione della potenza statale viene riaffermata affermando che “i soldati sotto diretto controllo dello Stato Islamico sono in Algeria, Nigeria, Chad, Libya, Egitto, Arabia Saudita, Yemen e altri Paesi ancora”.
Viene infine profetizzata la conquista di Costantinopoli e di Roma (“Accorrete oh Musulmani, questo con il permesso di Allah è il Califfato Islamico che conquisterà Costantinopoli e Roma come Muhammad profetizzò”).
In riferimento alla prima, vale la pena ricordare la sua valenza simbolica: la dinastia ottomana, l’ultima islamica, si considerava detentrice del titolo imperiale proprio in quanto in possesso di Costantinopoli, definita “la sede dell’Impero”.
Link utili
L’autore fornisce poi alcuni link a documenti e video. Il primo è un documento prodotto dallo stesso autore che commenteremo qui di seguito, gli altri sono link a video celebrativi (distruzione del confine Sykes-Picot), promozionali (due video sulla vita nel Califfato) e di impronta più operativa (un video sull’addestramento militare in Kazakistan).
C’è poi il link ad un sito che l’autore definisce “Una delle più grandi raccolte delle produzioni mediatiche del Califfato Islamico”, ora però non raggiungibile (e ciò si inserisce nel discorso della caducità dei siti e repository jihadisti, che già appariva ciclica e costante nel caso di Al-Qaeda, e che dimostra l’adattamento del network terrorista nell’abbandonare e reperire nuovi spazi sul web. Il testo, essendo di qualche mese fa, non può riportare la nuova ubicazione dei documenti che sicuramente, comunque, sarà già stata assicurata).
Interessante notare che, come sovente accade, i documenti menzionati (copie della rivista Dabiq) siano “ospitati” su un server “straniero”, in questo caso americano. Alcune di queste copie sono state rimosse ma ciò non fa che ribadire, comunque, l’utilizzo di siti terzi da parte degli jihadisti che, in genere, se ne servono (fino a rimozione attuata dal server stesso) per raggiungere una differente e più estesa fetta di pubblico (non solo individui già radicalizzati ma anche quei “neutrali” che, altrimenti, difficilmente si sarebbero imbattuti in documenti di quel tipo). Il rovescio della medaglia è il non controllo totale sui documenti, la possibilità, cioè, che essi vengano rimossi, ma tale cancellazione non è mai, comunque, immediata (in questo vi è lo sfruttamento indiretto, da parte della propaganda jihadista, delle nostre garanzie democratiche) e vi sono sempre server alternativi dove la documentazione viene prontamente riproposta.
Secondo documento: Califfato valido oppure no? – Produzione personale
Forse più interessante, come si diceva, è il documento aggiuntivo che l’autore ha prodotto (seguendo, su sua ammissione, lezioni e discorsi dello Sheykh Mizanur Rahman) in merito alla legittimità dello Stato.
Vi sono esposti tre punti/domande interessanti:
1) Affinchè il “Califfo sia valido nella sua autorità ci deve essere la shura (consultazione), ma chi
bisogna consultare?”
L’autore sottolinea la necessità, per legittimare il Califfo, di consultare gli Ahlul-Halli wal-‘Aqd, una sorta di grandi elettori che dichiarano la sottomissione a nome di tutto il popolo e che vedono legata la propria autorità al controllo di una determinata area geografica attraverso gli eserciti e la difensa di tutti i confini. Una autorità, quindi, reale, che implica il controllo del territorio, la difesa dei confini, il comando dell’esercito.
Vale la pena sottolineare che la validità o legalità di un Califfo riguarda principalmente la sua attività di natura politica (sebbene il Califfo non sia una figura politica in senso stretto). Vi è una sintesi tra compiti “politici” e compiti religiosi ma questi ultimi sono sempre comunque legati al tema dell’ordine pubblico.
Nel testo, vista l’accento sul processo elettivo, ci si rifà, quindi, a periodo precedente a quello in cui si è stabilito il principio dinastico, ovvero al trentennio, successivo alla morte di Maometto, dei cosiddetti 4 “califfi ben guidati” o califfi ortodossi, con funzione di “vicari dell’Inviato di Dio” (Abu Bakr, 632-634,‘Umar, 634-644, Uthman, 644-656, e ‘Ali, 656-661).
Successivamente, infatti, la dinastia Umayyade (e quindi il principio dinastico) salirà al potere (i Banû Umayya rappresentavano un clan dell’aristocrazia mercantile meccana preislamica).
Uno degli autori teorizzatori del Califfato, al-Mawardi (m. 1058), indica come requisito per il Califfo l’essere, tra le altre cose, qurayshita cioè appartenere alla tribù del Profeta Muhammad, requisito ribadito più tardi anche dall’autore siro-egiziano Rashid Rida (1865-1935).
Non vi è traccia, però, di tale requisito nei criteri esposti nel testo.
2) “Il Califfato può essere valido se i suoi soldati uccidono ingiustamente i Musulmani?”
Questo punto è da rilevare perché, nella narrativa spesso elaborata in chiave anti-ISIS è presente l’elemento di biasimo per le sofferenze inflitte a danno degli stessi Musulmani (la Ummah in senso esteso) da quei jihadisti che dichiarano di agire, al contrario, a loro esclusivo beneficio.
L’autore ribadisce la fallibilità e l’imperfezione dell’esercito islamico e la presenza di punizioni per coloro che errano, senza che questo infici la validità del Califfato (“IMPORTANTE: a volte può capitare anche che i cittadini vengano uccisi o colpiti in modo involontario dai Mujahidin e questa è una cosa normale e Ibn Taymiyya – che Allah abbia misericordia su di lui – in una sua fatwa dichiarò che non è peccato per i Mujahidin se questo avviene. Lo Stato applica la Shari’a: nei casi in cui questo è avvenuto hanno pagato le famiglie delle vittime con prezzo per il sangue versato e il pagamento è stato accettato. La stessa cosa capitò in un assalto guidato da Muhammad in cui appunto alcuni Musulmani erano stati uccisi involontariamente non distinguendoli dagli obiettivi nemici e il Profeta ordinò di pagare le famiglie delle vittime”).
3) “Che impatto ha la potenza militare sulle condizioni di validità di un Califfato?”
L’autore sottolinea come basti un esercito piccolissimo (numericamente non identificato), ovvero la mera esistenza dello stesso, così come non vi sia una durata definita o minima, affinché il Califfato sia da considerarsi valido.
Nell’affermazione “fa proprio parte della Sunnah di Allah che i Musulmani siano sempre più deboli negli armamenti e i più piccoli in numero ma i vittoriosi nelle battaglie” sembra anche vi sia una esplicita giustificazione ed esaltazione in chiave positiva dell’asimmetria che caratterizza lo scontro tra jihadisti e forze della coalizione.
Asimmetria, fallibilità e vittime Musulmane, principio elettivo sono dunque i principali concetti qui ribaditi.
In conclusione…
Il documento principale qui commentato, supportato da quello relativo alla validità dal Califfato, sebbene, a mio avviso, opera di un singolo radicalizzato intento a fornire un suo contributo divulgativo senza però avallo ufficiale alle spalle (né disponibilità dei mezzi avanzati ai quali siamo di recente abituati), si può considerare utile per due motivi principali.
Primo, è evidente come l’esistenza di un Califfato (e quindi fornire le prove di questo) sia considerato fondamentale nell’attuale pensiero jihadista al fine di provare che, al di là dell’universalità, esiste una Ummah ben definibile (i cittadini) e che l’Islam (nella loro concezione dello stesso) è attivo e visibile nei suoi effetti sulla terra.
La credibilità del Califfato è fondamentale per la partita che si sta giocando: si pensi non solo alla divisione del mondo in due campi ma anche anche alla profezia di Maometto sullo scontro tra 80 nazioni ed una nazione musulmana, quella che il Califfato vuole impersonare.
Il territorio è una “ossessione” jihadista nel testo ma anche nella realtà: si pensi alla dimensione territoriale che impatta l’applicazione della Sharia, al concetto di difesa dei confini imposto ai grandi elettori, alla necessità di un terreno-base da allargare attraverso successive conquiste.
La difesa e protezione della ummah appare realizzabile appieno solo attraverso le istituzioni di uno Stato-Califfato: si pensi al fatto che, nel pensiero della maggioranza sunnita (che si può ritrovare ne “I principi del potere”, trattato di al-Mâwardî che fissa anche i criteri di eleggibilità del Califfo), tra i doveri del Califfo verso la umma appaiono prioritari la buona amministrazione e la giustizia, settori che l’autore del testo ha tentato più volte di mettere in luce.
Ibn Taymiyyah, inoltre, nel suo pensiero politico, (pur non ritenendo necessarioa l’esistenza di un unico Califfato ma, magari di più Emirati), considerava uno Stato indispensabile per prendersi cura della popolazione, assicurando la giustizia, unificando e proibendo il male – attività che, come sottolineato dall’autore, il Califfato dichiara di fare attualmente.
2) L’appartenza alla tribù del Profeta Muhammad, requisito ribadito più volte nei secoli dai teorizzatori del Califfato non è rispettato dal Califfo attuale, cosa che va in forte contrasto con il millantato recupero dell’epoca dei “califfi ben guidati”.
Per chiudere: da un lato, come già ribadito, il Califfato per esistere non ha bisogno di una durata minima né di un numero definito e congruo di soldati: la sua stessa proclamazione è, quindi, per gli jihadisti, un vittoria in termini mediatici e un riallacciarsi, figurativamente, ad un epoca “d’oro”.
Dall’altro, paradossalmente, proprio questa enfasi sulla validità del Califfato è un punto fortemente vulnerabile degli jihadisti (per il punto due sopra esposto ma non solo) che, forse, potremmo sfruttare con narrative adeguate e con una propaganda efficace.
Elisabetta Benedetti
Immagine dal blog di Paolo Rovis