Dalla tesi Sahara Occidentale: conflitto e identità attraverso le storie di vita dei guerrilleros saharawi, di Luca Maiotti
Dall’eliminazione delle referenze tribali alla creazione di nuovi racconti
Il passaggio dalla società tribale a quella statuale comportò anche un cambiamento nei miti del passato. Sarebbe stato infatti anacronistico e controproducente se nello spazio pubblico saharawi – in cui non c’era più posto per il tribalismo, considerato anzi un crimine contro la nazione – fossero sopravvissuti l’insieme di racconti e di miti relativi proprio alle tribù – che generalmente trattavano dei fondatori. Come si evince dalle interviste precedenti, nessuno ha saputo o voluto dirmi alcunché riguardo la tribù e – a maggior ragione – delle storie, avvolte in un passato mitico, che la riguardavano.
Ciò è spiegabile in quanto l’operazione di rimozione della tribù ha investito tutto ciò a cui essa era legata. La creazione quasi ex nihilo di una nazione presuppone il passaggio da un tipo di legame reale – di contatto, di sangue, clanico – ad una fedeltà ad un modello astratto e intangibile – statuale. In entrambi i casi però è presente una componente di riferimenti – fossero anche lontani e addirittura non realistici – che assicurino un patrimonio comune originario a tutti i consociati. La capacità mitopoietica dell’uomo ha avuto un ruolo fondamentale in qualsiasi società, procedendo ad esemplificare comportamenti, norme e bisogni in modo che potessero essere nello stesso tempo tangibili – perché si riferivano a aspetti familiari della vita – e generali – perché servissero da riferimento per tutti. Se questo bisogno di raccontarsi delle storie affonda le sue radici nelle prime forme di organizzazione umana, esso può essere rintracciato nello Stato moderno di tipo europeo, dove nell’epica nazionale si ritrova la stessa esigenza di ritrovare – e, in qualche caso costruirsi – un insieme di riferimenti valevoli per tutti.
L’insieme dei miti e delle storie che ora costituiscono il patrimonio valoriale saharawi ha una doppia origine. Da una parte si trovano quei riferimenti fissati nel calendario o assunti come esempio dall’establishment del Polisario, dall’altra è presente una galassia di avventure personali che vanno a formare nello stesso tempo un nucleo privato e pubblico di ricordi. Privato perché sono gli uomini che le hanno vissute in prima persona a raccontare le esperienze extra – ordinarie, pubblico perché il tramandarsi delle stesse assicura di generazione in generazione una condivisione progressiva fino a creare una rete incrociata a metà tra il sapere storico e il racconto mitico.
La figura di El Wali e le feste nazionali
Per quanto riguarda i simboli del primo tipo, quelli scelti e impostati dal gruppo dei dirigenti del Fronte Polisario troviamo alcuni riferimenti fissi. I nomi sono quelli dei capi delle lotte anticoloniali, antenati della causa nazionale saharawi: Cheik Ma El-Ainin in primo luogo, precursore della prima forma organizzata di resistenza con una spiccata presenza – ma non esclusiva – di Saharawi tra le truppe, seguito da Mohamed Bassiri, attivista e ispiratore dell’Harakat Tahrir, unica formazione politico-sociale genuinamente saharawi prima della creazione del Polisario. Accanto a questi nomi si staglia però quello del primo segretario e fondatore del Fronte Polisario, El Wali Mustapha Sayed. Durante l’attacco a Nouakchott del 1977, offensiva che mise a nudo tutta la debolezza del regime mauritano, la pattuglia in cui si trovava El Wali fu allontanata e distrutta. La morte del capo carismatico avrebbe potuto in effetti trasformare l’indubbio successo militare in un elemento distruttivo per l’intero Fronte Polisario. Si decise così di fissare l’immagine concreta di El Wali nello spazio ideale delle coscienze saharawi, facendolo assurgere a martire della guerra.
Da quel giorno, il 9 giugno 1976, data della sua morte, costituisce la giornata dei martiri. Celebrare la morte dell’eroe El Wali, figura concreta e storica, è l’occasione per celebrare la figura di ogni martire saharawi. Tutte le formazioni sociali sono coinvolte nella preparazione per gli eventi nei campi dei rifugiati per la giornata dei martiri e il nome di El Wali si ritrova nell’unica scuola militare saharawi, nei nomi di gruppi musicali, nelle citazioni e nei detti ed è considerato da tutti il Padre della Nazione saharawi.
Nella stessa categoria – quella delle date simbolo – si trovano due eventi di capitale importanza, addirittura richiamati nella Costituzione della Repubblica Araba Saharawi Democratica alla voce feste nazionali. Il primo è il 27 febbraio, ricorrenza della proclamazione della nascita della RASD nel 1976. Questo per sottolineare il passaggio storico in cui alla colonizzazione succedeva un’entità statuale matura, che, in forza del diritto internazionale, creava uno spazio legittimo dove il popolo saharawi potesse vivere: il Sahara Occidentale; il secondo è il 12 ottobre, data in cui si siglò l’unità nazionale. Da quel giorno iniziò l’esperienza del popolo saharawi, fino a quel momento considerato come un semplice insieme di tribù. Tra queste due c’è il 9 giugno, data in cui – come ricordato – si ricordano tutti i martiri della causa saharawi, a cominciare da El Wali.
Le storie personali
La figura di El Wali e le date da celebrare qui riportate furono scelte dai dirigenti del Polisario come eventi-simbolo perché andassero a costituire i cardini dell’epica nazionale. Accanto a queste però, sono nate tutta una serie di storie che prendono spunto da fatti realmente successi che – inconsciamente – si aggiungono a quelle istituzionali. Praticamente ogni Saharawi maschio – tranne rare eccezioni come insegnanti e infermieri – è stato soldato ed ha avuto terribili esperienze di guerra. Ognuna di queste esperienze, raccontate e filtrate dalla memoria, si tramandano nelle famiglie e poi tra le famiglie, contribuendo a creare un insieme omogeneo, una memoria nazionale.
“Nell’anno 1977, quando eravamo ancora pochi e deboli, eravamo una pattuglia che si componeva di quindici veicoli. Eravamo separati per cinque. E tra i cinque in cui stavo io, ci accerchiarono i marocchini. E senza accorgercene, senza parlare ci separarono dal resto delle macchine, dai dieci. Alla fine dei giochi siamo stati là per tre o quattro ore e alla fine siamo riusciti a uscirne. Di quella gente abbiamo catturato qualcosa come 16 o 17 marocchini e due macchine. Le nostre perdite erano di cinque persone. E ovvio, fu durissima perché i marocchini erano 150 macchine, immagina quello che possono fare 5 macchine. Cioè così sembra una stupidaggine, ma andò così. D’altronde questo successe molto tempo fa, nel ‘77, in un posto tra Bojador e El-Ayun, la capitale”
Il valore di questo aneddoto, raccontato da un ex-guerrigliero, non va ricercato nella sua veridicità. Il divario di forze tra gli eserciti, la differenza di motivazioni a livello del singolo, le coordinate spaziali e temporali dell’evento sono tutti elementi che potrebbero servire a controllare se lo scontro è avvenuto o meno e se il numero dei caduti da entrambe le parti risulti in registri militari. Oltre al fatto che questa verifica è nella pratica impossibile – soprattutto nei primi anni la struttura dell’esercito saharawi era ancora piuttosto grezza e i dati sulle vittime marocchine sono lontani dall’essere attendibili – bisogna soffermarsi sul valore in sé di questa storia. Ciò che rileva è infatti l’esistenza stessa di questo racconto – che appare inverosimile – nella sua funzione esemplificativa.
E’ una narrativa che ripercorre alcuni dei valori cardine della lotta saharawi: l’inconsistenza del fattore numerico davanti alla volontà e al valore militare, elemento che non solo caratterizzò tutta la guerra, ma addirittura si accrebbe con il passare del tempo: il non soffermarsi sull’azione militare in sé in presenza di un estraneo, quasi a voler da una parte mantenere il riserbo sui metodi dell’operazione, dall’altra ad alimentare il mito della leggendaria capacità di colpire dei guerrilleros saharawi. C’è solo scontro con i marocchini, che rimangono inanimati e escono dallo scontro beffati e colpiti. Non c’è nessun tipo di contatto umano né tentativo di dialogo anche nelle altre interviste ed essi incarnano il ruolo di oggetto, mai di soggetto. In pratica – come è comune nelle situazioni di guerra – si procede secondo la visione dicotomica bene-male e questo caso non fa eccezione, non lasciando spazio a rimorso o dispiacere.
“Ci sono molti episodi, ma raccontarli è lungo. Ci sono molti, moltissimi aneddoti che ti posso raccontare, anche nel muro in sé. Eravamo là, entriamo nel muro fino a circa 18 km oltre il muro. Eravamo per i territori marocchini, catturando marocchini. Tra una cosa e l’altra nel frattempo a corrergli dietro ci separammo. La mia macchina restò sola. Mi si bucò una ruota e volevano abbandonare la macchina. Alla mia macchina bucarono le ruote e rimasi là con i marocchini e la macchina con le ruote bucate. E con la macchina sola. E gli altri non si accorsero di niente.
E mentre se ne andavano, correndo a piedi riuscii ad avvisarli perché non mi abbandonassero. E qui finì, riuscii a farli arrivare, vennero, con dietro tutti quanti, caricammo le armi e partimmo. Lo so che raccontato sembra una stupidaggine, ma almeno hai un’idea di quello che è l’esercito saharawi, di come è stato”
Anche per questo stralcio di intervista vale la stessa considerazione di sopra: più che la veridicità, importa l’esistenza stessa del racconto. Affinché l’ascoltatore – in questo caso io, ma vale per chiunque ascolti, compresi figli, nipoti, commilitoni, assemblee – possa capire cosa fu l’esercito saharawi e come fu la guerra, perché una situazione fuori dall’ordinario così ben gestita possa essere presa come modello dalle nuove reclute. Ugualmente, esso potrà essere ripreso in un contesto pacifico per sottolineare lo spirito del singolo o l’”alleanza” del popolo saharawi con il deserto – visto come luogo amico fin dall’antichità e comunque parte di suolo che appartiene al Sahara Occidentale.
La scelta di alcuni momenti cardine e il sorgere spontaneo di storie di vita vanno a creare – con un doppio procedimento, uno formale e l’altro informale – quella che si può definire un’epica nazionale.
Nell’epica nazionale coesistono quelle storie e quei momenti – alcuni scelti dal governo della RASD, altri dalla popolarità – dove alcuni valori fondamentali per la società saharawi sono protagonisti e che quindi fondano un riferimento comune intergenerazionale.
Luca Maiotti
Il post precedente è al link Sahara Occidentale: conflitto e identità attraverso le storie di vita dei guerrilleros saharawi, L.Maiotti/10 – Esercito, strategia e un lungo muro
Seguirà: Capitolo 3 – I campi e la detribalizzazione: una logistica ragionata
Foto: Saharawi Indipendente