Feb 13, 2015
1176 Views
0 0

Il massacro del generale Tellini sul confine greco-albanese, tra Islam balcanico e Cristianesimo ortodosso

Written by

19230902_L'Illustrazione italiana_l'eccidio della missione italiana in Albania_gen Enrico TelliniBy Filippo Malinverno

Dalla tesi “Il caso Tellini: la questione del confine greco-albanese dall’eccidio di Giannina all’occupazione di Corfù” di Filippo Malinverno.

La mattina del 27 agosto 1923 a Zepi, lungo la strada tra Giannina e Kakavia, nei pressi del confine tra Grecia e Albania, la delegazione italiana del generale Enrico Tellini veniva trucidata da un gruppo di ignoti assassini, dopo essere stata inviata dalla Conferenza degli ambasciatori a tracciare materialmente la frontiera greco-albanese, all’epoca oggetto di contesa fra i due paesi.

Per giorni le indagini proseguirono tra scetticismi e misteri di vario genere, senza che nessuna autorità poliziesca riuscisse mai a trovare i veri colpevoli: chi furono i responsabili dell’accaduto?

Senza conoscere la risposta, il governo fascista di Mussolini, al potere da meno di un anno, reagì duramente contro la Grecia occupando l’isola di Corfù con la forza e superando la mediazione della Società delle Nazioni (SDN). In quei giorni l’Europa fu nuovamente vicina allo scoppio di un’altra guerra mondiale, solamente a pochi anni di distanza dalla fine della prima, a dimostrazione del fatto che la conferenza di pace di Parigi non aveva risolto la maggior parte delle rivalità presenti nel vecchio continente ma, invece, aveva aperto nuove ferite.

I Balcani si dimostrarono ancora una volta il focolaio di instabilità per eccellenza, dove etnie diverse e religioni diverse si confrontavano senza fine per imporre la loro cultura e realizzare il proprio sogno nazionale: dopo che la nazionalità serba era stata la maggiore protagonista del primo conflitto mondiale, ora albanesi e greci convogliarono i loro attriti sulla delegazione italiana del generale Tellini, innocente vittima di una violenza perpetrata da ignoti.

La questione del confine greco-albanese, già presentatasi nel 1913 dopo le due guerre balcaniche con la nascita dell’Albania indipendente e rimasta in sordina fino al 1919 a causa della guerra, tornò così in primo piano sullo scenario internazionale, anche se l’ardita mossa di Mussolini a Corfù avrebbe presto fatto dimenticare al mondo occidentale la sua esistenza.

Anche in questo caso, se gli Stati balcanici si mostrarono desiderosi di perseguire le proprie aspirazioni territoriali, le grandi potenze europee vincitrici della guerra, Gran Bretagna, Francia e Italia, preferirono tutelare i propri interessi in quell’area nevralgica del continente piuttosto che realizzare l’autodeterminazione dei popoli wilsoniana, inficiando così il ruolo della già debole Società delle Nazioni.

Accecate dalle loro brame di potere, le potenze dell’Intesa non si accorsero che dietro l’efferato massacro di Tellini e dei suoi uomini si nascondeva un problema molto più grave: la rivalità tra due popoli, albanesi e greci, e due religioni, l’Islam balcanico e il cristianesimo ortodosso, che sarebbe stata una costante per tutto il Novecento.

Quali furono gli autori dell’eccidio di Giannina? Quanto le rivalità greco-albanesi influirono sull’accaduto? La comunità internazionale si accorse che nei Balcani i conflitti non erano ancora stati sanati? Fece qualcosa per prevenirli?

In questo lavoro cercheremo di dare delle risposte a questi quesiti, analizzando cause e conseguenze di un eccidio che ancora una volta rischiò di far precipitare l’Europa nel baratro della guerra.

CAPITOLO I: L’OMICIDIO TELLINI

1.1. La Conferenza degli Ambasciatori

Nel 1922, dopo aver attentamente valutato tutte le variabili etniche e culturali, la Conferenza degli Ambasciatori nominò una commissione per tracciare fisicamente la linea di confine greco-albanese stabilita politicamente tra le dirette interessate e le potenze europee. Bisognava piantare i ceppi di delimitazione e la missione non era affatto agevole in un territorio così fortemente instabile e pericoloso: tutti i governi dell’Intesa conoscevano la delicatezza della questione.

La Conferenza degli Ambasciatori di cui trattiamo in questo lavoro non fu l’unica della storia, anzi. Prima del grande conflitto mondiale, lo scenario internazionale aveva già conosciuto la creazione di altre conferenze simili: queste erano sempre state viste come delle istituzioni diplomatiche per i negoziati e per la risoluzione delle dispute, che venivano convocate a seconda delle necessità del momento storico in questione. La Conferenza degli Ambasciatori di Tellini nacque, come quelle precedenti, dalla necessità di risolvere urgentemente alcune dispute territoriali ancora aperte, come, appunto, quella greco-albanese. All’inizio tuttavia, l’obiettivo di questo organo riguardava solamente la Germania.

Già nel luglio 1919 infatti, poco dopo la firma del Trattato di Versailles, il Consiglio Supremo alleato si era riunito al Quai d’Orsay, a Parigi, per discutere della creazione di un’apposita commissione che controllasse l’attuazione del trattato con la Germania e, di conseguenza, si occupasse poi di controllare l’esecuzione di tutti gli altri punti dello stesso.

A causa delle pressioni di Lloyd-George e Clemenceau, che volevano ridurre il più possibile i poteri dell’organo per assicurarsi un controllo rigoroso e totale sull’adempienza degli accordi da parte dei tedeschi, questa commissione non ebbe molto potere decisionale e soprattutto non fu affidata a veri diplomatici, ma a politici, fatto che senza dubbio indebolì il già flebile potere decisionale ed esecutivo della commissione stessa (solamente l’Italia, nominando come suo rappresentante Vittorio Scialoja, fornì l’esperienza diplomatica necessaria).

Una volta formata la Commissione, composta da un rappresentante per ogni nazione vincitrice (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Italia e Giappone), si poteva pensare alla creazione di un organo permanente che avesse autorità in ogni questione che si sarebbe sollevata nel momento dell’entrata in vigore del trattato di Versailles. Così come nel Consiglio Supremo Londra e Parigi avevano chiarito che la commissione non avrebbe dovuto avere alcun potere esecutivo, all’interno della commissione stessa furono sempre Gran Bretagna e Francia ad inficiare l’efficacia dell’organo in via di formazione, che verrà poi chiamato Conferenza degli Ambasciatori: era evidente che, mentre Giappone, Italia e Stati Uniti cercavano di creare un’istituzione con ampi poteri che si elevasse al di sopra degli interessi nazionali, Lloyd-George e Clemenceau volevano utilizzarla come semplice strumento per far rispettare alla Germania il durissimo trattato di pace .

Il progetto fu poi approvato senza la partecipazione degli Stati Uniti a causa del voto contrario del Senato agli accordi di Versailles: con Washington fuori gioco, Francia e Gran Bretagna si ritrovarono tra le mani il controllo quasi assoluto sia della Società delle Nazioni che della Conferenza degli Ambasciatori in fieri.

Ma quali sarebbero stati i compiti della Conferenza? E quale il suo campo di giurisdizione? In teoria, secondo la bozza appena approvata, questo organo avrebbe dovuto occuparsi di sorvegliare il rispetto del trattato di pace da parte della Germania in merito a tutte le questione che non erano di competenza della SDN; tuttavia, ciò ad alcuni non bastava.

Mentre gli americani, che avevano comunque lasciato nell’istituzione come osservatore non partecipante l’ambasciatore Hugh C. Wallace, capirono, tacitamente supportati dagli inglesi, che il nuovo organo non avrebbe mai potuto essere una continuazione del Consiglio Supremo, Francia e Italia tentarono di allargare le competenza della Conferenza degli Ambasciatori, in particolare nei Balcani, dove entrambe le potenze avevano grandi interessi da tutelare.

Nonostante le pressioni italo-francesi, la Conferenza, che, ricordiamo, era un organo separato dalla Società delle Nazioni, fu creata, il 21 gennaio 1920, secondo la bozza originale.

Presto le sue competenze si sarebbero allargate notevolmente, arrivando a trattare anche questioni come quella della città libera di Danzica e la disputa tra Polonia e Cecoslovacchia per la città di Teschen.

Senza dubbio, Tellini e i suoi uomini pagarono la mancanza di chiarezza e di coerenza tra le parti all’interno dell’organo internazionale: l’uscita dalla politica europea degli Stati Uniti, lo scarso peso della Società delle Nazioni e le dissidenze fra gli alleati dell’Intesa in merito a numerose questioni territoriali e alle riparazioni di guerra furono tutti fattori che impedirono sia alla SDN che alla Conferenza degli Ambasciatori stessa di formulare una strategia europea condivisa da tutti, permettendo così agli interessi nazionali delle grandi potenze di prevalere sulla tutela del bene comune.

1.2. I prodromi dell’eccidio: l’insufficiente prevenzione greco-albanese contro il banditismo

Al suo arrivo in Albania nel 1922, il generale Tellini si era già accorto della pericolosità della missione che avrebbe dovuto compiere lungo un confine greco-albanese che ancora non esisteva formalmente.

Già da parecchi anni, quei territori erano dilaniati da un dilagante banditismo, sia greco che albanese, fenomeno che nessuna delle due polizie di Stato era in grado di controllare a causa della difficile morfologia della regione e del collaborazionismo dei villaggi di contadini con le bande di criminali.

Inoltre, le evidenti differenze religiose tra greci e albanesi non facevano che complicare la situazione, provocando continui attriti fra i vari gruppi nazionali: mentre i primi erano cristiani ortodossi, i secondi erano in maggioranza musulmani, essendo stati per secoli sotto il dominio dell’Impero ottomano (l’Albania conquistò l’indipendenza solamente nel 1913, per poi perderla nuovamente durante la guerra e riacquisirla nel 1920).

Questo scenario di instabilità non poteva che far preoccupare i governi di Tirana e Atene, ripercuotendosi anche sulla vita interna di entrambi i paesi. Già nel maggio 1921, per esempio, la stampa greca aveva accusato la Francia di essere l’istigatrice delle scorribande albanesi in Grecia: questa accusa non era del tutto infondata, dato che fin dal 1919 Parigi non aveva perso occasione per sostenere Mustafa Kemal nella guerra che avrebbe posto fine al sogno greco della “Megàli Idea”.

Due anni più tardi, all’inizio di agosto del 1923, il governo greco registrò poi un nuovo e intenso aumento delle scorribande e dei saccheggi albanesi nel proprio territorio, temendo che questi continui attacchi avrebbero potuto provocare lo scoppio di una nuova guerra balcanica, guerra che la Grecia, appena uscita sconfitta dal conflitto con la Turchia kemalista, non aveva né i mezzi né l’intenzione di combattere.

Essendosi la situazione lungo il confine gravemente deteriorata, il Ministro degli Esteri greco Alexandris, allo scopo “di evitare serie conseguenze che potrebbero non mancare per il risultato del frequente ripetersi degli atti”, invitò la Legazione albanese ad Atene a “intercedere con il suo governo così che un forte controllo potesse prevenire in futuro la formazione e l’entrata nel territorio greco di bande armate di ogni tipo”.

Sei giorni dopo arrivò la risposta albanese: Tirana, nonostante affermasse che il governo greco non aveva alcuna prova che dimostrasse che le bande in questione fossero albanesi, promise che avrebbe subito avviato delle indagini per scoprire i colpevoli. Era ovvio che l’azione dei banditi andava a danneggiare gli interessi di entrambi i paesi, i quali avevano l’obbligo di interrompere il fenomeno e prevenirlo; ma fino a che punto gli albanesi e i greci si volevano impegnare per arginare il banditismo?

Se, da una parte, la Grecia non perse occasione per accusare il governo di Tirana di collaborazionismo con le bande di criminali che agivano lungo il confine, dall’altra l’Albania, nello scambio di note con Atene, continuò a negare il suo diretto coinvolgimento nelle operazioni di saccheggio in territorio greco. Tuttavia, nonostante le smentite albanesi, i sospetti dei greci parevano essere fondati: in una nota inviata alla Legazione albanese il 23 agosto 1923, il governo di Atene elencò quattro specifiche bande albanesi, riconosciute e supportate dai funzionari locali di Tirana, che stavano operando nella zona dell’Epiro per aumentare il proprio controllo sul territorio.

In un’altra nota destinata all’Albania, datata 27 agosto 1923, data dell’omicidio di Tellini, il ministro Alexandris presentò poi un rapporto molto più dettagliato nel quale si diceva che, “in dispetto delle ripetute proteste del governo greco”, le incursioni si erano intensificate e, in secondo luogo, che l’azione di queste bande erano “tollerate da certi agenti subordinati albanesi”.

La lettera si chiudeva con un perentorio avvertimento, con il quale la Legazione albanese veniva spronata “ad intercedere con il suo governo per la cessazione di questi non amichevoli complotti”, i quali avrebbero potuto avere “serie ripercussioni nelle buone relazioni di vicinanza tra i due paesi”.

Insomma, la questione del banditismo di confine era un nodo di Gordio difficile da districare e che, forse, sia Albania che Grecia non volevano risolvere definitivamente. Del resto, se la Grecia era tanto preoccupata perché non si prodigò tanto per mettere in sicurezza il confine? E perché le indagini condotte dagli albanesi non sortirono alcun effetto benefico sulla situazione? Nel frattempo, mentre i diplomatici dei due paesi si scambiavano note e lamentele, il gruppo di Enrico Tellini veniva trucidato a Zepi.

1.3. Le dinamiche dell’assassinio

Il 27 agosto del 1923, il generale italiano Tellini aveva organizzato una ricognizione congiunta nella Drin Valley (una valle nel nord-est dell’Albania che corre lungo il fiume Drin) insieme alle delegazioni albanese e greca, le quali, essendo dirette interessate nella definizione dei confini, partecipavano regolarmente ai lavori della commissione della Conferenza degli Ambasciatori.

Il punto di ritrovo delle tre delegazioni sarebbe stato il posto di frontiera greco di Kakavia e l’orario di ritrovo era stato stabilito per le 9.00.

Quella mattina, alle 5.30 in punto, la delegazione albanese guidò il convoglio delle tre delegazioni partendo da Giannina; poco dopo, alle 6.00 si aggiunse la delegazione greca guidata dal colonnello Botzaris; infine, circa una mezz’ora dopo, partì da Giannina anche la delegazione italiana, composta dal generale Tellini, dal maggiore Corti (medico della spedizione), dal tenente Bonaccini, dall’autista Farnetti e dall’interprete albanese Thanassi Gheziri, un epirota di Leskovik.

L’ordine delle vetture era quindi il seguente: gli albanesi alla guida, i greci in mezzo e gli italiani a chiudere il convoglio. Poco prima delle 7.00 accadde un primo imprevisto: la Ford del colonnello Botzaris ebbe un guasto al motore e fu costretta a fermarsi in mezzo alla strada all’altezza del diciassettesimo chilometro del percorso Giannina-Kakavia, venendo raggiunta poco dopo dalla Lancia della delegazione di Tellini; declinando l’offerta di aiuto proposta dal tenente Bonaccini, il colonnello greco invitò gli italiani a proseguire verso Kakavia, affermando tuttavia che, a causa del guasto, il suo gruppo sarebbe arrivato in ritardo.

La vettura italiana dunque proseguì il viaggio, trovandosi ora nel mezzo del convoglio, posto che avrebbe dovuto essere occupato dai greci. A quel punto, mentre il colonnello Botzaris attendeva la squadra di riparazione, sopraggiunse sul luogo un’altra vettura, quella del nipote dell’Arcivescovo di Giannina, al quale, contrariamente a quanto suggerito agli italiani, fu impedito di proseguire oltre, dato che l’automobile guasta si trovava al centro della carreggiata.

Come mai a Tellini era stato permesso di proseguire e al nipote dell’Arcivescovo no? Più avanti cercheremo di risolvere questo dubbio.

Intanto, alle 10 circa del mattino, la delegazione greca era riuscita, dopo aver riparato il motore, a raggiungere la località di Zepi, tra il cinquantatreesimo e il cinquantaquattresimo chilometro sulla strada tra Giannina e Kakavia.

Lo spettacolo che si presentò davanti agli occhi di Botzaris e dei suoi commilitoni fu atroce: Tellini, Bonaccini, Corti, Farnetti e Gheziri giacevano morti intorno alla Lancia italiana.

Era evidente che si trattava di un efferato omicidio perpetrato tramite un’imboscata: dopo il passaggio dell’auto albanese alla guida del convoglio, gli assassini avevano sbarrato la strada con alcune sterpaglie per impedire alla vettura di fare qualsiasi manovra evasiva, poi, una volta giunta l’automobile, i banditi avevano sparato una raffica di colpi che colse di sorpresa Tellini e i suoi uomini.

Immediatamente, compresa la gravità del fatto, il colonnello Botzaris ordinò al 5° corpo d’armata dell’esercito ellenico di dare la caccia ai colpevoli perlustrando il territorio intorno a Zepi. Fu anche trasmessa alle autorità di Giannina una comunicazione che suggeriva di bloccare tutte le automobili provenienti da Argirocastro in Albania e, inoltre, il colonnello greco richiese alla delegazione albanese di rimanere a Kakavia, senza fornire alcuna motivazione ragionevole: più tardi, quest’ultima richiesta sarebbe stata fortemente criticata dalla Commissione di inchiesta interalleata.

Un’altra mossa criticata fu l’eliminazione, eseguita dai soldati greci, dei rami utilizzati dai banditi per bloccare la strada, rami che potevano fornire prove evidenti grazie alle impronte digitali o al taglio del legno, utile per sapere quale strumento si era usato per reciderlo dal tronco.

Perché i greci bruciarono questi rami pur non avendone bisogno per scaldarsi, dato che era estate?

Intanto, il governo greco e il governo albanese vennero informati dell’accaduto e Atene inviò subito una squadra per iniziare le indagini. Di questa squadra faceva parte anche il segretario del console italiano, Andrea Liverani, che si recò sul posto in qualità di osservatore: la commissione di indagine iniziale, infatti, era composta da soli ufficiali greci.

Tuttavia, né il 27, né il 28 né tantomeno il 29 e il 30 agosto gli inquirenti ellenici riuscirono a trovare prove schiaccianti che indicassero la nazionalità dei colpevoli; solamente il 2 settembre pervenne loro la testimonianza di due contadini greci, i quali avevano assistito dal vivo all’eccidio.

Grazie al loro contributo e ad altre testimonianze, raccolte grazie al compenso offerto dal governo greco a chiunque collaborasse, il rapporto finale delle indagini, pubblicato il 27 settembre 1923, affermava che “il crimine era stato pensato ad Argirocastro (Albania) ed eseguito da assassini su istigazione di persone albanesi ed eventualmente da autorità albanesi”.

Accuse gravissime, basate solo sulla testimonianza di qualche contadino greco che, probabilmente, aveva il dente avvelenato per via della a lui svantaggiosa determinazione della linea di confine; accuse alle quali il governo di Tirana rispose con fermezza, negando qualsiasi coinvolgimento nel massacro e controbattendo che la supposta banda di criminali albanesi avrebbe, per motivi di rivalità più accesa, dovuto casomai trucidare la delegazione greca e non quella italiana.

Ma allora perché il colonnello Botzaris aveva fatto passare avanti Tellini e non il nipote dell’Arcivescovo? Perché la delegazione albanese era rimasta a Kakavia e non era scesa fino al luogo dell’omicidio? Infine, perché la commissione di indagine era composta da soli greci e il caso era stato risolto in pochi giorni?

Tutti questi quesiti ci impongono di riflettere sull’eventualità che Atene cercasse un casus belli per risistemare il confine con l’Albania con la forza. Tuttavia, pare strano che, dopo la disastrosa sconfitta subita dai turchi, gli ellenici volessero impegnarsi in un nuovo conflitto che gli avrebbe reso ostile anche l’Italia e, con molta probabilità, la Francia. D’altra parte, è pur vero che un conflitto con gli albanesi e il possibile conseguimento di soddisfacenti vantaggi territoriali nell’Epiro avrebbero reso meno difficile da digerire il Trattato di Losanna con la Turchia del 24 luglio 1923.

Risulta difficile dire, per mancanza di prove evidenti, quale delle precedenti ipotesi sia vera; ciononostante, è certo che allora nessuno si aspettava la durissima reazione italiana contro la Grecia: in quei giorni l’Europa visse momenti di alta tensione, giungendo vicina allo scoppio di una nuova guerra.

Segue il Capitolo II: La crisi di Corfu’

Filippo Malinverno

Foto: Fiamme Cremisi

Article Categories:
Filippo Malinverno