Feb 15, 2015
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Il caso Tellini e l’invasione di Corfù decisa da Mussolini. Conseguenze e valutazioni

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By Filippo Malinverno

Dalla tesi “Il caso Tellini: la questione del confine greco-albanese dall’eccidio di Giannina all’occupazione di Corfù” di Filippo Malinverno.

Capitolo II: la crisi di Corfù

2.1. La reazione di Mussolini all’eccidio

Il 27 agosto 1923, con un allarmante comunicato, l’ambasciatore italiano ad Atene, Montagna, informò l’allora Primo Ministro e Ministro degli Esteri Benito Mussolini, al potere da poco meno di un anno, dell’efferato omicidio di ufficiali italiani avvenuto sul suolo greco.

Appena ricevuta la tragica notizia, Mussolini ordinò al proprio ambasciatore in Grecia di “fare le più energiche rimostranze a codesto governo facendo al tempo stesso ampie e complete riserve per tutte le riparazioni che ci saranno dovute e che pretenderemo dopo accertamento dettagliato dei fatti”.

Sottolineando la “gravissima responsabilità che incombe alla Grecia”, Mussolini non ricorse alla Società delle Nazioni per risolvere la questione, né si consultò con le quattro grandi potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Giappone), ma decise di agire in autonomia per mettere in atto una dimostrazione di forza.

Non appena ebbe ricevuto la notizia dell’eccidio, il Duce scrisse all’Ambasciatore Montagna di chiedere al governo greco delle riparazioni per il danno subito dall’Italia, definite da Mussolini stesso le “minime compatibili colla gravissima offesa di cui la Grecia si è resa responsabile verso l’Italia”; insieme alla nota per l’ambasciatore, il capo del governo italiano allegò anche un documento contenente tutte le richieste di risarcimento, economico e morale, che Atene avrebbe dovuto adempiere in favore di Roma entro ventiquattro ore.

L’allegato, inviato da Mussolini a Montagna in italiano, fu poi inoltrato dallo stesso Montagna al Ministro degli Esteri greco Alexandris, in lingua francese, e conteneva le seguenti richieste:

1. la presentazione di scuse formali da parte del governo greco a quello italiano;
2. lo svolgimento di una solenne cerimonia funebre per le vittime del massacro da tenersi ad Atene, in presenza di tutti i membri del governo greco;
3. gli onori alla bandiera italiana da rendere nello stesso giorno della cerimonia funebre (l’Italia sarebbe stata rappresentata da alcune navi della flotta mediterranea);
4. l’apertura di un’inchiesta alla quale avrebbe dovuto partecipare anche un rappresentante italiano, il colonnello Perrone;
5. la punizione capitale per tutti gli autori del crimine;
6. un’indennità di 50 milioni di lire a titolo di risarcimento;
7. gli onori alle salme dei caduti all’atto dell’imbarco per ritornare in Italia.

Nel documento ufficiale, le richieste italiane erano svariate e, in parte, inaccettabili per il governo greco, soprattutto con un ultimatum così ridotto.

Se Atene accettò senza protestare le riparazioni contenute nei punti 1, 2, 7 e, parzialmente, 3, gli ellenici respinsero categoricamente tutte le richieste dei punti 4, 5 e 6, rifiutando così ogni sorta di coinvolgimento nell’omicidio Tellini e dichiarando che l’affermazione italiana riguardo l’offesa greca ai danni di Roma era totalmente ingiusta.

La pena capitale per i colpevoli poteva anche essere accettata, ma il pagamento di 50 milioni di lire come risarcimento e la partecipazione di un delegato italiano, il colonnello Perrone di San Martino, alle indagini erano condizioni che, se accettate, avrebbero comportato l’implicita ammissione di colpa da parte della Grecia: i greci, dunque, rifiutarono tre dei sette punti proposti da Mussolini.

La reazione che il rifiuto greco scatenò fu decisamente inaspettata. Già alle 3.00 di notte del 31 agosto 1923, Mussolini telegrafava al Re Vittorio Emanuele III l’intenzione di occupare l’isola greca di Corfù:

“In seguito a […] risposta che equivale in sostanza al rigetto delle richieste italiane ho disposto per la partenza di adeguate forze navali e per l’occupazione a carattere pacifico e temporaneo dell’isola di Corfù mediante lo sbarco di un contingente di truppe limitato per ora a 1.000 uomini”.

La mattina dello stesso giorno, al largo di Corfù iniziarono le operazioni militari. Lo sbarco fu accompagnato da un bombardamento navale, breve ma sanguinoso, dovuto ad un’ingiustificata iniziativa del comando della squadra incaricata dell’operazione: la flotta dell’ammiraglio Emilio Solari, dopo aver ricevuto il rifiuto della guarnigione greca di issare bandiera bianca sul forte in segno di resa, fu costretta prima a sparare di colpi a salve per intimare i nemici e poi, dopo un nuovo rifiuto, a bombardare con tiri di piccolo calibro il forte, causando diversi morti tra i civili greci. Dopo la cessazione del fuoco, lo sbarco sull’isola avvenne agevolmente per gli italiani, che non trovarono alcuna resistenza. Una volta appresa la notizia dell’azione militare italiana, il governo di Atene decise di appellarsi al Consiglio della Società delle Nazioni di Ginevra.

2.2. La comunità internazionale di fronte all’occupazione di Corfù e l’incompetenza della Società delle Nazioni secondo il governo italiano

In quei giorni, a Ginevra si stavano svolgendo le normali sessioni del Consiglio e dell’Assemblea della Società delle Nazioni e la vicenda di Corfù era ovviamente sulla bocca di tutti: i vari delegati non si risparmiarono a criticare l’azione di Roma, troppo decisa e troppo drastica secondo la maggioranza dei membri.

Mentre la Grecia, inizialmente propensa a negoziare con Roma, aveva ritenuto opportuno, dopo l’occupazione della sua isola, rivolgersi al Consiglio della SDN e smettere di trattare con l’Italia, Mussolini e Salandra, delegato italiano a Ginevra, erano decisi a non sottoporre la questione alla neonata organizzazione internazionale, in quanto l’occupazione di Corfù non poteva essere considerata da un punto di vista giuridico un atto di guerra ricadente nell’articolo 15 del Covenant: a risolvere la questione, secondo l’Italia, doveva essere invece la Conferenza degli Ambasciatori, organo nel quale Mussolini avrebbe potuto contare sull’appoggio di Gran Bretagna, interessata a concludere la vicenda pacificamente per difendere i suoi interessi nel Mediterraneo, e Francia, desiderosa di un appoggio italiano nella questione della Ruhr.

Mussolini stesso, ben sapendo che l’attrito italo-greco sarebbe dipeso dalle decisioni di Londra e Parigi, nei giorni seguenti all’occupazione militare, aveva fatto sapere a diversi diplomatici in servizio a Roma che l’Italia sarebbe stata disposta ad abbandonare Corfù solamente se la questione fosse stata affidata alla Conferenza degli Ambasciatori; in caso contrario, gli italiani avrebbero continuato ad occupare l’isola, rischiando così di creare problemi che nessuna delle due grandi potenze europee aveva voglia di affrontare.

Dunque, cosa costava a Londra e Parigi esaudire i desideri di Mussolini e affidare la vicenda al giudizio della Conferenza?

Fondamentalmente niente. Accontentando il Duce, Francia e Gran Bretagna non avrebbero perso niente, anzi, avrebbero mantenuto buoni rapporti con l’Italia, potenza assai più influente della Grecia, avrebbero evitato di dover affrontare ulteriori problemi e avrebbero comunque tutelato i loro interessi nel Mediterraneo. Differente era invece la posizione delle piccole potenze, fortemente interessate a valorizzare il ruolo dell’organizzazione internazionale nel tentativo di strappare qualche concessione territoriale in futuro: molti dei loro rappresentanti temevano che un’eventuale esclusione della SDN dalla vicenda avrebbe inficiato il suo stesso ruolo nel panorama internazionale.

Ad ogni modo, Mussolini continuò a lottare nei primi giorni di settembre perché la questione fosse affidata alla Conferenza degli Ambasciatori. Le argomentazioni utilizzate da Roma per giustificare l’esclusione dell’organizzazione dalla crisi italo-greca furono quattro:

1. l’occupazione di Corfù non era un atto di guerra, ma soltanto di garanzia;
2. la Società delle Nazioni non poteva porsi come arbitro perché se lo avesse fatto avrebbe agito come un superstato (nessuno avrebbe mai voluto che la SDN diventasse tale);
3. il governo greco non era stato ancora riconosciuto da tutti;
4. la questione era già all’esame della Conferenza degli Ambasciatori (per iniziativa dell’Italia stessa).

Tra queste motivazioni, la più importante era la prima, in quanto si sostenne che la controversia con la Grecia non era un vero e proprio atto militare, ma, al contrario, riguardava esclusivamente l’onore e la dignità nazionale, visto che l’Italia aveva subito un’offesa in territorio greco ed era stata la vittima di un illecito avvenuto sotto responsabilità greca: dato ciò, la questione doveva essere esclusa dalle controversie contemplate negli articoli 11-15 del Covenant della Società delle Nazioni.

In pratica, l’occupazione di Corfù non era per gli italiani un atto militare, ma una sorta di occupazione di pegno o garanzia, categoria entro la quale faceva parte anche l’annessione della Bosnia-Erzegovina all’Austria-Ungheria, avvenuta nel 1908 (la delegazione italiana a Ginevra non mancò di sottolinearlo): essendosi la Grecia rifiutata di adempiere a tutte le richieste italiane, considerate da Roma più che legittime, Mussolini si era arrogato il diritto di reagire occupando militarmente un territorio greco a titolo di cauzione, almeno fino a quando Atene non avesse accettato le riparazioni in favore dell’Italia.

C’era poi la questione del bombardamento e della conseguente morte di alcuni civili greci, un incidente increscioso agli occhi dell’opinione pubblica internazionale; anche in questo caso però, l’Italia diede la totale colpa alla Grecia: infatti, era stato a causa del rifiuto greco di sventolare la bandiera bianca che l’ammiraglio Solari era stato costretto ad aprire il fuoco.

Per convincere Francia e Gran Bretagna, che di fatto tenevano le redini della SDN, della bontà delle sue motivazioni, Mussolini giunse anche a prospettare l’ipotesi di un ritiro dell’Italia dalla Società stessa nel caso in cui la crisi fosse stata affidata al giudizio dell’organizzazione ginevrina. Del resto, un eventuale ritiro dalla SDN non avrebbe fatto poi così tanto dispiacere all’Italia, dato che, in primo luogo, non c’era molta affinità fra i programmi revisionisti ed espansionisti del fascismo e i dogmi di tutela dello status quo sostenuti dalla Società, e, in secondo luogo, Roma era stata sempre considerata una potenza di seconda classe rispetto a Parigi e Londra.

Tuttavia, Mussolini era anche ben consapevole che, ritirandosi dall’organizzazione internazionale, l’Italia avrebbe senza dubbio perso peso politico a livello europeo, rischiando di patire un penoso isolamento diplomatico, cosa assolutamente da evitare per i progetti imperialisti del Duce.

Di fronte ad una possibile perdita di efficacia della Lega delle nazioni in caso di ritiro italiano, gli anglo-francesi lasciarono per un momento da parte i principi di sicurezza collettiva tanto cari alle piccole potenze balcaniche e favorirono così un compromesso che accontentava gli italiani di gran lunga di più che i greci, consentendo sia a Mussolini di salvare il proprio prestigio sia all’Italia di dimostrare la sua forza.

Alla fine, quindi, la questione venne risolta con l’accettazione, il 17 settembre 1923, da parte del Consiglio della Società delle Nazioni, della risoluzione adottata pochi giorni prima dalla Conferenza degli Ambasciatori, decisione che di fatto affidava alla Conferenza stessa il potere di giudizio finale sulla disputa italo-greca.

Il compromesso venne infine raggiunto il 27 settembre 1923, quando la Grecia, dopo la delibera internazionale del giorno prima, adempì alle richieste sottopostele dalla Conferenza degli Ambasciatori, che ricalcavano quasi in toto quelle italiane secondo la richiesta di riparazioni già inviata dalla Conferenza alla Grecia l’8 settembre, mentre l’Italia sgomberò l’isola di Corfù. La crisi venne così risolta senza colpo ferire.

2.3. Le origini della rivalità italo-greca: la violazione degli accordi di San Giovanni di Moriana

La crisi di Corfù del 1923, nonostante non condusse a nessun conflitto armato fra le due potenze protagoniste, dimostrò alla comunità internazionale la grande rivalità esistente tra Grecia e Italia nello scenario adriatico-balcanico. La prova di forza di Mussolini fu il primo vero scontro militare in cui Atene e Roma vennero coinvolte direttamente, ma la loro ostilità reciproca risaliva a diversi anni prima, quando in Europa era ancora in corso la Grande Guerra.

Con il Patto di Londra del 24 aprile 1915, la Triplice Intesa aveva raggiunto un fondamentale accordo con il Regno d’Italia, accordo che prevedeva l’ingresso di quest’ultima in guerra contro gli imperi centrali entro un mese dalla sua firma.

Tra le clausole del patto, che garantivano all’Italia ingenti compensi territoriali in caso di vittoria finale, ce n’erano diverse riguardanti l’influenza delle potenze dell’Intesa in Medio Oriente e in Anatolia, aree che erano di vitale interessi per tutti i belligeranti. Gli articoli in questione erano gli articoli VIII, IX, X e XII : negli art. VIII e X, rispettivamente, veniva innanzitutto stabilita la sovranità italiana sulle isole del Dodecaneso e sulla Libia, occupate dal 1912 dall’esercito italiano in seguito alla vittoria contro l’Impero ottomano nella guerra italo-turca cominciata nel 1911.

Per il resto, le clausole erano estremamente vaghe e sostanzialmente non vincolanti: all’Italia veniva infatti riconosciuto in via generale l’interesse al mantenimento dell’equilibrio nel Mediterraneo e promessa, in caso di divisione totale o parziale della Turchia asiatica, un’equa parte nella regione mediterranea vicina alla provincia di Adalia, sempre tenendo conto degli interessi di Gran Bretagna e Francia. Così redatti, questi articoli avevano semplicemente un valore formale e non ponevano alle potenze vincitrici alcun obbligo di consegnare all’Italia i territori promessi dopo la fine del conflitto: per ottenere un’assicurazione più vincolante, Roma necessitava di un ulteriore accordo scritto.

Fu per questo motivo che, il 24 aprile 1917, alla fine di una lunga trattativa che vide protagonista il ministro degli Esteri italiano Sidney Sonnino, vennero firmati gli Accordi di San Giovanni di Moriana fra Italia, Gran Bretagna e Francia. Anche la Russia avrebbe dovuto partecipare alla firma, ma essendo il regime zarista ormai crollato e la Rivoluzione d’ottobre alle porte, San Pietroburgo non poté inviare nessun rappresentante.

Secondo i termini degli accordi, che precisarono le ambigue clausole del Patto di Londra sull’Anatolia, alla Francia sarebbe stata concessa la regione di Adana, mentre l’Italia avrebbe ricevuto tutta la restante parte sud-occidentale dell’Anatolia, tra cui la città di Smirne. Entrambe le sfere di influenza avevano come oggetto dei territori rivendicati dalla Grecia, la quale sperava di sfruttare la probabile vittoria degli alleati dell’Intesa per realizzare la più volte citata “Megali Idea”.

Con la fine del conflitto mondiale e l’avvio delle trattative di pace a Parigi, le carte in tavola sarebbero state di nuovo rimescolate: Francia e Gran Bretagna si trovavano di fronte, all’inizio del 1919, due potenze vincitrici, Grecia e Italia, pronte a riscuotere i compensi territoriali che gli spettavano. Anche la Grecia infatti, in cambio del suo ingresso in guerra a fianco dell’Intesa, che avvenne nel giugno 1917, aveva ottenuto delle promesse territoriali da parte degli anglo-francesi: la Tracia orientale, le isole di Imbro e Tenedo e la regione di Smirne, guarda caso promessa anche agli italiani. Si trattò evidentemente di un doppio bluff da parte di Londra e Parigi, che, di fronte alle gravose esigenze militari, fecero promesse al vento sapendo bene di non poterle mantenere una volta giunti alla fine della guerra.

Il doppio gioco anglo-francese emerse con chiarezza durante la Conferenza di pace di Parigi, dove il primo ministro greco, Eleftherios Venizelos, fece pressione su Clemenceau e Lloyd-George per ottenere i territori promessi alla Grecia due anni prima.

La stessa cosa fecero Sonnino e Vittorio Emanuele Orlando, rappresentanti italiani alla conferenza, ma, di fronte all’indifferenza degli alleati, gli italiani decisero di abbandonare Versailles dando inizio alla questione della “vittoria mutilata”, d’ora in poi costante della vita politica italiana dei primi anni Venti.

Approfittando dell’assenza della delegazione italiana, che sarebbe tornata a Parigi il 5 maggio, il primo ministro inglese Lloyd-George convinse Clemenceau e Wilson della necessità di appoggiare le rivendicazioni territoriali greche, impedendo all’Italia di avviare qualsiasi iniziativa militare per prendersi con la forza ciò che le spettava secondo gli accordi di San Giovanni di Moriana: non fu difficile per il premier britannico trovare un’intesa con i francesi e gli americani e alla fine Venizelos fu libero di ordinare al proprio esercito di occupare Smirne il 15 maggio 1919.

Le armate turche di Mustafa Kemal avrebbero poi sconfitto i greci in nome della propria integrità territoriale, ma fra Grecia e Italia era nato un contrasto che sarebbe poi esploso durante la Seconda Guerra Mondiale con l’attacco fascista alla Grecia nell’ottobre 1940. La crisi di Corfù fu solo una scintilla che, almeno per il momento, non condusse ad uno scontro armato di larga scala.

2.4. Successo o danno? Le conseguenze sul piano internazionale

L’occupazione di Corfù e la conseguente crisi italo-greca furono un successo per l’Italia oppure una bruciante sconfitta? Politicamente parlando, questo gesto avventato non aveva certo giovato né all’Italia né alla reputazione di Mussolini all’estero; anzi, l’occupazione portò piuttosto a un raffreddamento delle relazioni italiane non solo con Atene, ma anche con Londra e Belgrado. D’altra parte, invece, Mussolini ottenne un grande successo, in particolare su due fronti: prima di tutto scosse il prestigio della Società delle Nazioni, organizzazione che di certo non gli suscitava simpatia, e, in secondo luogo, riuscì a dimostrare alle grandi potenze che l’Italia era capace di ottenere ciò che voleva anche con la forza e che il ruolo di Roma negli equilibri europei non poteva essere trascurato. Il Duce riuscì così a difendere l’onore dell’Italia di fronte a quelle grandi potenze che l’avevano sempre guardata con superiorità e distacco.

Emblematiche sono le parole del Duce in merito proprio alla Società: “la Società delle Nazioni è un duetto franco-inglese; ognuna di queste potenze ha i suoi satelliti e i suoi clienti, e la posizione dell’Italia fino a ieri, nella Lega delle nazioni, è stata di assoluta inferiorità”. Ora però, con la risoluzione in favore dello Stato fascista della questione di Corfù, la situazione era nettamente cambiata e Roma era riuscita a garantirsi il rispetto di Francia e Gran Bretagna.

Rimaneva da decidere se rimanere dentro la Società oppure abbandonarla: una scelta difficile, che andava analizzata in tutti i suoi pro e contro.

Lasciare la Lega avrebbe sì dato un segnale forte alle grandi potenze, ma avrebbe anche escluso l’Italia dai giochi di potere continentali e mondiali.

Il Duce stesso, nel suo discorso al Senato del 16 novembre 1923, ribadì che “niente può impedire che altri agiscano all’infuori di noi od anche contro di noi”, tuttavia un’uscita dalla Lega avrebbe comportato la violazione del “trattato di Versailles e di tutti gli altri trattati, perché il patto della Lega è parte integrante di tutti i trattati di pace” .

Non si poteva quindi abbandonare l’organizzazione, ma si doveva comunque lavorare e adoperarsi per cambiare diverse condizioni quasi avvilenti di inferiorità nelle quali l’Italia si trovava allora: l’obiettivo di Mussolini sarebbe stato cercare di stabilire un’uguaglianza totale fra il Regno d’Italia e le altre due maggiori potenze della Società, Francia e Gran Bretagna. Il Duce aveva compreso che, nonostante le difficoltà e i malfunzionamenti, la Lega delle nazioni era pur sempre il luogo in cui i grandi discutevano e prendevano decisioni riguardo a questioni internazionali di importanza assoluta. Bisognava restare, e Mussolini avrebbe dimostrato negli anni seguenti un atteggiamenti più benevolo verso la Società, come dimostrò la partecipazione dell’Italia al Patto di Locarno del 1925, un documento pieno di buone intenzioni ma con scarsa valenza reale.

2.5. La dubbia liceità delle misure coercitive e la determinazione del soggetto leso

Prima di proseguire con l’analisi della disputa greco-albanese circa i confini, è necessario concludere il discorso sulla crisi di Corfù verificando, in primo luogo, se le misure coercitive prese contro la Grecia fossero lecite oppure no e, in secondo luogo, quale fosse o quali fossero i soggetti lesi nella questione italo-greca.

Riguardo al primo punto, dopo la chiusura dell’affare Tellini, il Consiglio della Società delle Nazioni decise di nominare un apposito Comitato di giuristi per fare chiarezza sull’applicazione degli articoli 12, 13, 14 e 15 del Covenant: l’obiettivo, vista la confusione che aveva generato l’eccidio di Giannina, era quello di precisare quali fossero le competenze della SDN nella soluzione delle controversie internazionali e di verificare se fosse o meno lecito ricorrere a misure implicanti l’uso della forza meno gravi della guerra (le cosiddette “measures short of war” ) per tutelare un proprio diritto o interesse.

Dopo diverse analisi, il Comitato avrebbe tuttavia risposto in modo insoddisfacente ai quesiti sopracitati, in quanto i giuristi affermeranno che non può stabilirsi in astratto se misure del tipo di quella presa dall’Italia siano compatibili o meno con lo Stato della Società delle Nazioni: l’incompletezza di questa risposta deve far riflettere sulla grande ambiguità che avvolgeva le disposizioni contenute nel Covenant riguardanti l’uso della forza, visto che nemmeno degli esperti di diritto internazionale riuscirono a districare il nodo. Fortunatamente, nel 1945 le grandi potenze avrebbero imparato la lezione, adottando una formula diversa e molto più chiara per l’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite, riguardante l’uso della forza: stando al suddetto articolo, tutt’ora vigente, misure come quelle prese dall’Italia nell’estate del 1923 sarebbero categoricamente vietate.

Passando alla seconda questione, ovvero la determinazione del soggetto leso, si può notare come, almeno inizialmente, l’Italia si considerò come unica vittima indiretta dell’eccidio, dato che quattro suoi militari erano stati assassinati. A dimostrazione di ciò basta leggere il già citato telegramma di Mussolini a Montagna de 29 agosto 1923, dove il Duce ribadisce chiaramente che la Grecia è l’unica e vera responsabile dell’offesa recata ai danni dell’Italia; di un’eventuale offesa alla Conferenza degli Ambasciatori, che di fatto era il mandante della missione di Tellini, Mussolini e Montagna non fanno menzione.

Certo, Roma si rivolse subito alla Conferenza, richiedendo alla comunità internazionale che fosse questo organo ad occuparsi delle indagini e non, come volevano le piccole potenze, la Società delle Nazioni, ma questa richiesta era stata formulata unicamente con l’idea di ricevere il sostegno alle proprie richieste di riparazione da parte della Conferenza stessa.

La posizione degli Stati membri dell’organo internazionale era tuttavia diversa, poiché tutti concordavano sul fatto che il vero soggetto leso fosse la Conferenza degli Ambasciatori, essendo il generale Tellini nell’esercizio di una funzione da essa stabilita. Non a caso, anche la Conferenza inviò, il 31 agosto, una nota al Ministro degli Esteri greco Alexandris in cui protestava per l’increscioso delitto avvenuto in territorio greco e nella quale esprimeva l’intenzione di chiedere presto delle riparazioni.

Ma allora chi era stato il vero soggetto offeso? L’Italia, la Conferenza oppure entrambe?

Dopo lunghi giorni di dibattito, alla fine si giunse ad un ragionevole compromesso, con l’Italia che consentì l’invio di una nota collettiva ad Atene da parte di tutti i membri della Conferenza degli Ambasciatori. La richiesta di riparazioni giunse al governo greco l’8 settembre 1923: secondo questa nota, il soggetto leso era dunque la Conferenza, dato che si chiedeva che la presentazione delle scuse formali da parte della Grecia fosse fatta agli Stati membri della Conferenza e non solo all’Italia e, in secondo luogo, che il saluto alla bandiera fosse reso alle navi di tutti i membri della Conferenza che si trovavano in acque greche.

Tuttavia, allo stesso tempo si riconobbe che esisteva uno Stato più leso degli altri, l’Italia, alla quale spettavano speciali riparazioni: le navi italiane avrebbero guidato la flotta internazionale per ricevere il saluto alla bandiera e, cosa più importante, la Grecia avrebbe dovuto depositare 50 milioni di lire presso la Banca Nazionale Svizzera a titolo di cauzione in favore dell’Italia.

Anche in questo caso vediamo dunque che le grandi potenze e l’Italia seppero giungere ad un compromesso che non creasse ulteriori problemi, cercando di risolvere la questione nel minor tempo possibile e con il minor impiego di risorse. Nonostante ciò, Francia, Gran Bretagna e Italia non potevano ignorare che tutta questa crisi aveva radici ben più profonde della politica estera aggressiva di Mussolini: le tensioni fra Grecia e Albania erano una novità derivata dagli accordi di Versailles oppure erano un problema di lunga data?

Filippo Malinverno

La puntata precedente è al link Il massacro del generale Tellini sul confine greco-albanese, tra Islam balcanico e Cristianesimo ortodosso (13 febbraio 2015)

Segue il Capitolo III: Il confine greco-albanese

Foto: europinione.it

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