Cap 1.3 della tesi “Sahara Occidentale: conflitto e identità attraverso le storie di vita dei guerrilleros saharawi”, di Luca Maiotti
Cap 1.3 Introduzione storica
Gli “anni di piombo” marocchini: l’esercito
La questione del Sahara Occidentale assurse in Marocco a problema politico nazionale nei primi anni ‘70. La situazione interna era costellata da picchi di crisi che segnavano l’affacciarsi di una condizione di pericolosa instabilità, perché mettevano in discussione uno dei pilastri del regno: l’esercito.
Il Reale Esercito Marocchino con a capo il futuro Ḥassan II, sfilando per la prima volta per le vie di Rabat il 14 marzo 1956, aveva consacrato l’entrata del paese nel concerto delle nazioni moderne, con risonanze politiche e psicologiche fondamentali. Assorbiti in quindici anni ciò che rimaneva dei corpi coloniali francesi e spagnoli e l’ALM (Armée de Libération Marocaine), l’esercito si strutturava in due tronconi etnici, uno berbero e uno arabo, sulla cui rivalità potevano giocare gli interessi dinastici. Gli effettivi passarono da 15.000 uomini nel momento della loro creazione (di cui 10.000 fanti) a 57.000 nel 1971.
Il re si appoggiò completamente sull’esercito e i servizi di sicurezza (nella persona di Mohammad Oufkir, capo della Sicurezza Nazionale e poi Ministro dell’Interno) per tenere sotto controllo le pulsioni violente che minacciassero di rovesciarlo (in particolare l’Algeria e l’UNFP, la sinistra marocchina).
Il 10 Luglio 1971 però, mentre il re Ḥassan II festeggiava il suo 42° compleanno nel palazzo dello Skhirat alla periferia di Rabat, un tentato colpo di Stato si risolse con un bilancio di 100 morti e più 200 feriti, ma il monarca scampò miracolosamente all’assalto. La sua risposta non si fece attendere e dieci ufficiali implicati nel fallito golpe – fra cui quattro generali – furono passati immediatamente per le armi.
Assistendo all’ascesa di Ahmed Dlimi, prima suo braccio destro ed esecutore spietato (per esempio nell’eliminazione dell’oppositore Mehdi Ben Barka), poi uomo di fiducia nei rapporti con Israele e rivale nella scalata al potere, lo stesso ex capo dei servizi Mohammed Oufkir fu l’ispiratore del secondo colpo di stato in due anni che avrebbe dovuto liquidare il re insieme all’apparato gravitante attorno a Dlimi.
Il 16 Agosto 1972 prima si cercò di abbattere il Boeing dove il re stava volando di ritorno dalla Francia, poi, visto che l’aereo riuscì fortunosamente ad atterrare, l’attacco continuò dall’aria, ma il re ne uscì indenne. Ripresa in mano la situazione, 58 militari furono portati nei “bagni di Tazmamart”, Oufkir fu “suicidato” e Dlimi, sempre presente accanto al re, fu promosso sul campo. Dlimi divenne direttore nel 1973 del DGED (Direction Générale des Etudes et de la Documentation, in altre parole i Servizi Segreti marocchini) e l’anno seguente fu incaricato del Sahara. Diventato uomo forte del regime, morì nel 1983 in un incidente di camion cisterne vicino Marrakech per un probabile coinvolgimento in un terzo colpo di stato.
In questa successione di disordini e di pericoli mortali, il re vide rompersi il rapporto che lo aveva legato all’esercito di cui restava comunque il capo di stato maggiore. L’esercito, umiliato da ciò che era successo dopo i putsch, covava ancora risentimenti per la sorte delle dozzine di uomini coinvolti nel secondo colpo di Stato, rinchiusi nelle prigioni di Tazmāmārt. L’invio di quella che diventerà il più grande esercito per effettivi del Maghreb (oltre 200.000 uomini) in una guerra in zone lontane anche 2.000 km da Rabat, asseconderà la doppia esigenza di allontanare l’esercito per calmarne le tensioni con lo stato maggiore e nello stesso tempo coinvolgerlo nella costruzione del progetto nazionale affidandogli una missione per salvezza della patria.
Gli “anni di piombo” marocchini: la contestazione sindacale e studentesca
Contemporaneamente, la situazione politica interna era squassata da altre rivendicazioni di stampo sindacale e terzomondista, portate avanti da una parte consistente della gioventù marocchina sotto la guida dell’UNEM (Union Nationale des Etudiants Marocains).
Affermando il suo carattere progressista e avvicinandosi sempre di più all’opposizione di sinistra, l’UNEM prese una svolta più radicale, anti-imperialista e rivoluzionaria dopo l’assassinio di Mohammed Ben Barka nel 1966 a Parigi. Questa “piccola guerra”, come fu chiamata dalle autorità marocchine, sotto forma di proteste e manifestazioni, passò dalle rivendicazioni più semplici fino alla messa in discussione dell’intera struttura statale, in un ambiente iper-politicizzato in cui al mito della rivoluzione venne data una prospettiva storica tangibile (Vietnam, propaganda della Cina popolare).
E’ in questo stesso contesto politico-culturale che si formarono alcuni dei dirigenti e fondatori del futuro Fronte Polisario (il cosiddetto “gruppo di Rabat”), anche se sarebbe inesatto supporre una vera e propria alleanza o addirittura una subordinazione alla sinistra marocchina. Fermo restando ciò, soprattutto per opportunità tattiche, il gruppo di Rabat si considerò militante nel quadro della mobilitazione studentesca nell’orbita UNEM, con attività di sensibilizzazione e conferenze sulla situazione politica e sociale nel Sahara Occidentale.
Gli “anni di piombo” marocchini: la crisi politica
Dietro la facciata di monarchia plurisecolare e stabile, il Marocco celava quindi delle importanti debolezze strutturali interne. All’indomani dell’indipendenza infatti la società rimaneva perlopiù rurale e tribale, in larga parte insofferente, strattonata tra le istanze centralizzatrici del makhzen e i diversi modus vivendi che avevano caratterizzato una sovranità a geometria variabile nel corso dell’epoca moderna.
La borghesia si preparava a raccogliere ciò che era stato lasciato cadere dai colonizzatori, senza avere però nessuna intenzione di coinvolgere il resto della società. Dal punto di vista politico, il partito dell’Istiqlāl aveva federato le varie anime dell’opposizione ai colonizzatori, ma dopo l’indipendenza una forte spinta centrifuga aveva dato nascita a una serie di partiti, quasi tutti in opposizione alla politica di chiusura monarchica.
Fu però proprio l’Istiqlāl, nella persona di Allal el-Fassi, padre spirituale del nazionalismo marocchino, a riannodare i legami con il Trono, assicurandosi una posizione centrale nella questione del Sahara Occidentale. Il Re infatti utilizzò abilmente il Sahara per uscire dalla crisi, sfidando i partiti a schierarsi dalla parte del monarca o a contribuire al futuro smembramento dello Stato. Su una questione di tale rilevanza nazionale, nessun partito osò ovviamente contrastare il re, il quale presentò un governo di alleanza nazionale. Fu allora l’Istiqlāl a fornire il supporto ideologico fondamentale alle rivendicazioni del Marocco sul Sahara Occidentale con l’elaborazione della “teoria del Grande Marocco”. Comparsa per la prima volta su un giornale nel 1956, essa era stato elaborata come una base per le rivendicazioni nazionaliste già all’epoca della colonizzazione, ma fu ripresa negli anni ‘70 per la questione sahariana.
Questa teoria vedeva un Marocco esteso fino alla riva del fiume Senegal (inglobando praticamente Sahara Occidentale e Mauritania) e al nord del Mali, accanto alle tradizionali rivendicazioni delle province algerine di Béchar e Tindouf e alle enclave di Ceuta e Melilla. Negli anni seguenti, dopo un’improduttiva “guerra delle Sabbie” con l’Algeria, la teoria del Grande Marocco fu limitata soprattutto alle pretese sul Sahara Occidentale, ammantando di legittimità storica ciò che, come si è visto, si era caratterizzato come un’operazione di uscita dalla crisi politica, militare e sociale dei cosiddetti “anni di piombo” marocchini.
E’ fondamentale specificare la diversità e l’intensità delle sollecitazioni a cui era sottoposto il regno, poco incline al rinnovamento delle sue élite, ma capace di uscirne praticamente indenne, per evidenziare l’importanza che l’affaire sahariano ricoprì nello spazio pubblico marocchino.
La condizione di guerra aperta, destinata a protrarsi per oltre 15 anni, faceva buon gioco al Re: da una parte catalizzava l’attenzione della comunità nazionale, offrendole la facile soluzione di un complotto esterno di provenienza algerina, dall’altro non permetteva lo sviluppo di un discorso pubblico e partecipato sul tema (per anni l’esistenza di prigionieri di guerra marocchini fu negata, così come dati reali delle battaglie e dei costi non vennero mai alla luce).
In più, lo sviluppo ipertrofico dell’apparato militare, che passò da 56.000 a 175.000 uomini tra il 1974 e il 1982 – oggi addirittura salito a 198.000 attivamente sotto le armi, più 100.000 coscritti e 150.000 riservisti – si inseriva perfettamente nella secolare concezione del Makhzen. Makhzen, termine con cui generalmente si fa riferimento all’establishment marocchino, in senso letterale indica la cassa in cui si depositavano le imposte, ma si riprende qui la definizione di Nicolas Michel, che lo intende come una grande casa (del sultano ovviamente) in cui l’amministrazione non è che una delle funzioni, accanto a quelle di fornire vestiti e cibo per esempio.
Il messaggio, sottinteso ma chiaro, è che non si scordi né si riesca mai a uscire dalla dipendenza dell’amministrazione centrale, quindi dal Re stesso, e la crescita mastodontica degli effettivi militari ne è un perfetto esempio.
Luca Maiotti
Seguirà La colonizzazione del Sahara Occidentale
Foto (Oufkir e Hassan II): rabat-maroc.net