Lug 17, 2014
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L’ascesa cinese in Asia Centrale/3, Mentesana

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By Valentina Mentesana

2.2. Cenni sull’evoluzione dei rapporti con l’URSS (poi Russia)

I rapporti tra Cina e Unione Sovietica non sono mai stati idilliaci a causa delle controversie legate ai confini, ma un ulteriore inasprimento si è registrato nel 1954 quando il governo di Pechino ha pubblicato una mappa in cui parti dell’attuale Kazakistan, del Kirghizistan e del Tagikistan venivano raffigurate come parti integranti del territorio cinese.

Contestualmente Mao Tse Tung accusò pubblicamente la Russia zarista di aver proceduto unilateralmente all’annessione dei suddetti territori negli anni ’80 del XIX secolo.

I rapporti tra le due potenze sicuramente più influenti dell’area rimasero tesi almeno fino al 1987, quando Mosca e Pechino avviarono formalmente un dialogo per risolvere la disputa territoriale sui confini. Furono, poi, gli eventi internazionali a provocare un’ulteriore brusca frenata ai negoziati e la Repubblica Popolare Cinese, di fronte allo smembramento dell’Unione Sovietica del 1991, iniziò a manifestare apprensione circa la sorte dei confini che prima condivideva con la stessa. Il crollo dell’URSS, infatti, fece sorgere una serie di Repubbliche Autonome che vennero a sostituirsi alla prima in quanto Stati confinanti della Cina.

Nello specifico, dopo il 1991, la Repubblica Popolare Cinese si ritrova a condividere i propri confini occidentali con Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. Preventivamente, nell’agosto 1991 il vice premier cinese Wang Zhen aveva ordinato all’Esercito Popolare di Liberazione dello Xinjiang, la regione nordoccidentale della Cina direttamente confinante con l’URSS, di “formare un muro d’acciaio per salvaguardare il socialismo e l’unificazione della madrepatria”.

Attualmente Russia e Cina condividono alcuni obiettivi fondamentali e si sa che la presenza di un nemico esterno solitamente contribuisce alla coesione dell’alleanza. In questo caso specifico, al di là delle minacce non convenzionali alla sicurezza e alla stabilità dell’area, Cina e Russia si preoccupano di contenere l’influenza statunitense nella regione. A questo proposito, nel luglio 2001 Vladimir Putin e Jiang Zemin firmarono il Trattato di Buon Vicinato, Amicizia e Cooperazione.

2.3. Gli obiettivi della politica estera cinese

L’agenda politica cinese dei primi anni ’90 annoverava tra le principali preoccupazioni del governo di Pechino il mantenimento della stabilità dello Xinjiang, la regione che, come già precisato, confina direttamente con tre delle neonate repubbliche centroasiatiche (Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan) e della cui peculiarità si tratterà nel proseguo del testo. Nel corso degli anni ’90, la Cina ripensò più volte la sua strategia politica ed inserì tra le problematiche presenti in agenda almeno altri tre aspetti: le questioni energetiche, la rivitalizzazione del commercio lungo la Via della Seta e le minacce legate a terrorismo internazionale, estremismo religioso e traffico di droga e di esseri umani. Dopo l’intervento statunitense in Afghanistan dell’ottobre 2001, la Cina ha dovuto rivedere le sue posizioni anche in funzione della competizione con questo nuovo attore dell’area.

Va ricordato che la Cina si era pubblicamente riavvicinata agli Stati Uniti per la prima volta nel 1997 quando il successore di Deng Xiaoping, Jang Zemin, fece la sua prima visita ufficiale negli Stati Uniti. L’attentato alle Twin Towers di New York verificatosi l’11 settembre 2001 ha contribuito inevitabilmente a rafforzare ulteriormente il legame tra Washington e Pechino. L’allora presidente della Repubblica Popolare Cinese, Jiang Zemin, espresse tutta la sua solidarietà al Presidente Statunitense George W. Bush per l’attacco subito. Nella stessa occasione si schierò apertamente con gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo affermando di essere disposto ad accettare qualsiasi decisione il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avesse adottato per cacciare i Talebani dall’Afghanistan. L’appoggio di Pechino non fu meramente declaratorio in quanto ben presto la Cina aprì un corridoio umanitario per soccorrere la popolazione afgana martoriata dalla guerra e, dopo la sua elezione avvenuta nel 2004, il neopresidente afgano Hamid Karzai fu accolto a braccia aperte a Pechino. Tuttavia, a soli due anni dall’intervento in Afghanistan e a ridosso dell’intervento unilaterale anglostatunitense in Iraq (marzo 2003), il Presidente della Repubblica Popolare cinese Hu Jintao dichiarò che per gli Stati Uniti l’11 settembre 2001 era stato solo un pretesto per dare sostanza alla strategia della guerra preventiva. Benché al momento del suo insediamento il neopresidente cinese Hu Jintao dichiarò che in futuro non ci sarebbero stati cambiamenti nella politica estera cinese, nella realtà dei fatti la variazione nella percezione circa la reazione statunitense all’attacco subito fu solo il primo di una serie di continui aggiustamenti che vennero apportati alla linea politica della Repubblica Popolare Cinese. Il cambiamento di rotta di Pechino è imputabile principalmente alla decisione angloamericana di intervenire in Iraq, ma l’opposizione cinese, a differenza di quella francese e tedesca, non si concretizzò con pubbliche manifestazioni di dissenso, ma semplicemente attraverso la mancanza di dichiarazioni di appoggio all’intervento in Iraq, un atteggiamento che potremmo definire come “dissenso defilato”.

Si trattò di un momento topico per Pechino perché la dirigenza del Partito Comunista Cinese si trovava a dover approfondire e definire nuovamente una delle minacce che da sempre turbavano la governance del Paese, uno dei “tre mali” (i “tre mali” annoverati anche tra gli obiettivi della SCO sono: separatismo etnico, estremismo religioso e terrorismo) che affliggevano l’area: il terrorismo. Fino all’11 settembre 2001 il governo centrale aveva sempre considerato il terrorismo come una minaccia reale presente soprattutto nell’area nordoccidentale del Paese, nell’area compresa tra lo Xinjiang e i vicini Stati di Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. Per Pechino quella del terrorismo non era una categoria universale, non era possibile generalizzare e ricondurre ogni singolo episodio di violenza nel mondo a tale insieme. Secondo la dirigenza del Paese gli atti di violenza nel Medio Oriente non potevano essere assimilabili agli atti di terrorismo puro che si verificavano in Tibet né agli attentati di matrice indipendentista della Cecenia. Oltre a questa profonda divergenza di contenuti, le posizioni di Pechino e Washington differivano profondamente anche per quanto riguarda gli strumenti da utilizzare per combattere il terrorismo. In quest’ottica l’intervento statunitense in Afghanistan prima e in Iraq poi si discostava nettamente dalla volontà cinese di affrontare la questione con l’arma della diplomazia.

Nel settembre 2011 la dirigenza del Partito Comunista Cinese pubblicò il “Libro Bianco sullo sviluppo pacifico” nel quale si annoveravano i core interest cinesi non negoziabili. Questi erano:

  • sovranità statale
  • sicurezza nazionale
  • integrità territoriale e riunificazione nazionale
  • conservazione del sistema politico stabilito dalla costituzione cinese e della stabilità sociale complessiva
  • tutela di uno sviluppo socioeconomico sostenibile

2.4. Quali gli sviluppi futuri?

E’ possibile affermare, quindi, che negli ultimi vent’anni si sia verificato il passaggio da una formulazione puramente ideologica della politica estera, basata sulla difesa dei comuni valori del comunismo o comunque sulla contrapposizione dei due blocchi, a un’impostazione decisamente opportunistica.

I leader del Partito Comunista Cinese, infatti, non si nascondono più dietro alla facciata dei valori comunisti, ma preferiscono ribadire che la formulazione della politica estera dev’essere funzionale agli interessi materiali del Paese: approvvigionamento energetico, tutela della sovranità e dell’integrità territoriale e crescita economica. Attualmente, quindi, la Repubblica Popolare Cinese risulta essere un Paese che tende pragmaticamente a individuare le linee di condotta più congeniali ai propri interessi.

Ecco che, di fronte a tali prospettive, la Cina non può rinchiudersi in se stessa, ma deve necessariamente trovare un equilibrio comunicando con gli altri attori che operano nell’area. La formulazione della politica estera cinese si basa fondamentalmente su convinzioni strategiche di base il cui rispetto è ad oggi considerato essenziale per il perseguimento dell’obiettivo primario di Pechino: la crescita del Paese. Tali convinzioni strategiche, che furono seriamente messe in discussione dall’intervento anglostatunitense in Iraq del 2003, sono la ferma convinzione che le Nazioni Unite siano l’unico e, in quanto tale, insostituibile soggetto in grado di gestire gli affari mondiali e l’assoluta necessità di una realtà caratterizzata dalla multipolarità. Una multipolarità che consente alla Repubblica Popolare Cinese maggiori libertà soprattutto in ambito economico data, ad esempio, l’affermazione dei Mercati Emergenti, importante sbocco per la produzione cinese. Per il futuro, quindi, ci si aspetta che la nuova leadership cinese cerchi di rendere il ruolo internazionale della Repubblica Popolare Cinese più congruente con il suo peso economico.

Nello specifico, per giungere alla stabilizzazione dell’area centroasiatica, condizione indispensabile per il raggiungimento di tutti e tre gli obiettivi sopra citati, la Cina utilizza fin dagli anni ’90 strumenti quali la concessione di investimenti, la conclusione di accordi finanziari, la concessione di aiuti allo sviluppo e la partecipazione a missioni di peacekeeping e ad esercitazioni congiunte con gli eserciti delle repubbliche Centroasiatiche e della Russia. Accanto allo strumento bilaterale è ben presente anche l’elemento multilaterale, indispensabile in un mondo caratterizzato, appunto, da una governance multipolare. A questo proposito va ricordato che, specialmente a partire dagli anni 2000, la classe dirigente cinese ha interiorizzato questa necessità e ha favorito l’accesso della Cina, ad esempio, al WTO (World Trade Organization) nel 2001. I mezzi utilizzati dalla Cina per tutelare i propri interessi a livello mondiale sono, quindi, essenzialmente quattro:

  • Shaghai Cooperation Organisation (SCO)
  • Pipeline diplomacy
  • instaurazione di relazioni bilaterali
  • avvio di iniziative multilaterali

Nel prosieguo del lavoro ci occuperemo di definire gli scopi della SCO e di approfondire l’esame dell’utilizzo della cosiddetta pipeline diplomacy con particolare riferimento all’Asia Centrale.

Valentina Mentesana

Seguirà 2. Lo Xinjiang

Il post precedente è al link L’ascesa della Cina in Asia Centrale/2, Mentesana

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