Capitolo Secondo: Georgia, Pedina Di Un Nuovo Grande Gioco
La nuova Russia e la politica del “Near Abroad”. La Russia nel Caucaso: il caso Georgiano
Come analizzato in precedenza, la nuova Federazione Russa aveva cercato di imporsi quale potenza egemone nelle Repubbliche Centroasiatiche e Caucasiche attraverso un alto livello di cooperazione, mediante accordi economici e militari. Il controllo del Caucaso rappresentava la conditio sine qua non della politica espansionistica russa non solo verso il Medio Oriente, ma anche verso la Turchia e verso l’Iran.
La nascita delle tre repubbliche aveva creato una serie di complicazioni non trascurabili per Mosca:
1) in base alle direttive che le tre Repubbliche Caucasiche avrebbero assunto in politica estera, la Russia poteva trovarsi o nella stessa posizione geostrategica del pre-dissoluzione dell’Urss, oppure si sarebbe vista bloccare la direttiva espansionistica verso Sud, con conseguenze economiche e strategiche devastanti;
2) la Russia si rendeva conto del fatto che sarebbe stato difficile riuscire a controllare tutte e tre le Repubbliche del Caucaso, a causa degli odi difficilmente sanabili tra Armenia e Azerbaigian. La situazione in Georgia risultava ancor più complessa e rappresentava un vero e proprio nodo di Gordio per Mosca: il nuovo leader Gamsakhurdia aveva ridestato il nazionalismo georgiano, fomentando l’odio verso l’invasore russo (Il popolo russo veniva considerato “invasore” poichè la Georgia era stata costretta a entrare nell’Urss forzatamente, dopo la disfatta delle forze mensceviche contro l’Armata Rossa) e si era reso promotore di una politica di repressione delle minoranze. Le regioni di Abcasia e Ossezia del Sud avevano più volte richiesto l’indipendenza e l’annessione alla RSFSR. Queste due pedine potevano diventare la testa di ponte per collegare il Caucaso del Sud alla Russia. Tuttavia bisognava agire in modo calcolato e prudente poiché una politica poco lungimirante nei confronti dell’ Ossezia del Sud e dell’Abcasia avrebbe potuto compromettere i rapporti con le repubbliche musulmane del Nord Caucaso, quindi in territorio russo stricto sensu, e favorirne le mire indipendentiste.
In un Caucaso difficile da pacificare, la soluzione migliore sembrava portare a fomentare il caos nella regione: la carta dell’ “instabilità” avrebbe costituito più volte l’asso nella manica della politica di Eltsin prima e di Putin poi: poiché i legami che vincolavano il Caucaso indipendente e la Federazione Russa erano ancora molto forti, non sarebbe stato difficile per Mosca ottenere il placet internazionale per l’invio di “contingenti di pace” nelle zone di guerra.
Il dispiegamento di peacekeepers russi (formalmente sotto mandato della CSI) in Abcasia e Ossezia del Sud non sarà altro che uno strumento “politically correct” per esercitare un controllo militare nell’area.
A cosa sarebbe servito, tuttavia, fomentare il caos e l’odio trai popoli in una zona già vessata da crisi economiche e guerre civili?
Per rispondere a questa domanda bisogna introdurre, in breve, le nuove dottrine dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, sia per sè sia attraverso la NATO: l’ultima teoria sostenuta da molti stati europei prevede appunto un allargamento dell’area Schengen, ponendo come fulcro il Mar Nero.
I primi paesi che hanno beneficiato di questa nuova politica di integrazione sono stati pertanto Romania e Bulgaria, sulla costa occidentale del Mar Nero; la Turchia invece, a causa di problemi interni che non andremo a trattare in questo saggio, pare essere ancora lungi dall’ ingresso in Europa.
Notevoli complicazioni sono sorte inoltre quando Georgia e Ucraina hanno manifestato il desiderio di diventare sia membri dell’Unione che membri NATO. Sebbene Putin avesse accolto con indifferenza tali possibilità, in seguito alle “Rivoluzioni Colorate”, il presidente russo non parve propenso ad assecondare le velleità europeistiche e filo atlantiche delle sue due ex-repubbliche. Con l’instaurarsi di governi dichiaratamente filo-occidentali sia in Georgia che in Ucraina, la Russia si sarebbe potuta trovare con due paesi membri della NATO nel “giardino di casa” .
Uno dei punti fermi dell’Organizzazione Nord-Atlantica nei confronti dei nuovi candidati prevedeva però l’impossibilità di diventare membro effettivo se fossero stati in corso, al momento della richiesta, conflitti all’interno dei propri confini nazionali. Ecco spiegato uno dei due principali motivi per cui un Caucaso pacificato non rientra nei piani russi.
Il secondo motivo per cui un Caucaso instabile gioverebbe più alla Russia che alle cancellerie occidentali riguarda l’annosa questione delle risorse energetiche.
Il bacino del Mar Caspio rappresenta il nuovo “El Dorado” per tutte le maggiori compagnie petrolifere, con riserve di idrocarburi di notevole interesse per tutti i paesi importatori di gas e petrolio. Sebbene esista già una forma di cooperazione tra tutti gli stati costieri del Mar Caspio, la CECO (Caspian economic cooperation organization; composta da Russia, Kazakhstan, Azerbaigian, Turkmenistan e Iran. L’ organizzazione risulta complessivamente inefficiente a causa delle dispute tra gli stati membri riguardo lo status giuridico del Mar Caspio: a seconda del fatto che il bacino venga considerato un lago o un mare chiuso, la suddivisione delle acque territoriali varierebbe sensibilmente e, con esso, anche il controllo di notevoli giacimenti offshore), il fatto che nuovi stati indipendenti ricchi di giacimenti (Kazakhstan, Turkmenistan, Azerbaigian) possano intraprendere politiche energetiche diverse rispetto alla volontà di Mosca suscita l’interesse di grandi attori internazionali tra i quali Cina, India, ma soprattutto Stati Uniti e Unione Europea. Nella speranza di diversificare l’origine delle importazioni di idrocarburi e di allentare la morsa congiunta di Russia e Medio Oriente, Stati Uniti ed Europa avrebbero attuato, dalla metà degli anni ’90, una politica di avvicinamento al Caucaso. Perché il Caucaso?
Il Caucaso (sebbene Armenia e Georgia siano prive di giacimenti e le risorse azere non siano particolarmente rilevanti) rappresenta un passaggio sicuro dal Mar Caspio all’Europa.
La costruzione di gasdotti e oleodotti, avviata alla fine degli anni ’90 per collegare i giacimenti offshore in acque territoriali azere con la Turchia e l’Europa, sarebbe potuta essere il punto di partenza per un’espansione verso la parte più difficilmente sfruttabile e raggiungibile: la costa est, con i giacimenti offshore turkmeni e kazaki. La costruzione di un gasdotto che, attraversando il Caspio, scavalcasse l’Iran a Sud e la Russia a Nord, riuscisse a collegare gli stabilimenti kazaki e turkmeni a quelli azeri sancirebbe una definitiva vittoria europea, privando la Russia di un notevole potere di contrattazione all’interno della zona Schengen (la Russia ha utilizzato più volte negli anni la minaccia di alzare considerevolmente i prezzi degli idrocarburi, o di sospendere le forniture in periodo invernale come strumento di politica estera; in particolare, si è rivelato utile con le ex-repubbliche di Bielorussia, Ucraina e Georgia, ma non è escluso che Mosca ricorra a questo escamotage anche nei confronti dell’ Europa).
Tuttavia, agli inizi degli anni ’90, quando già si pensava a un’ipotetica pipeline trans – caucasica, una sola condizione doveva verificarsi per rendere tale progetto una realtà: due delle tre Repubbliche Caucasiche dovevano essere stabili dal punto di vista interno e sufficientemente filo-occidentali da poter aderire al progetto.
Dando per assodato che il passaggio di un gasdotto attraverso l’Armenia era impossibile, poiché le frontiere con la repubblica azera erano chiuse a causa degli asti derivanti dal conflitto in Nagorno Karabakh, restava una sola soluzione possibile: una pipeline che da Baku attraversasse in toto il territorio georgiano per giungere in Turchia attraverso l’Ajara. Lo stato georgiano doveva essere in grado di frenare le forze centrifughe interne ed era nel pieno interesse europeo e statunitense che ciò avvenisse.
Era nel pieno interesse russo, pertanto, destabilizzare la zona, in modo da non renderla appetibile a investitori stranieri; in tal modo la pipeline sarebbe dovuta passare in territorio russo, attraverso la Cecenia.
La dissoluzione dell’Unione Sovietica aveva creato un vacuum politico-amministrativo che, in principio, sarebbe stato causa di una politica non chiara nei confronti della Georgia. Mentre, tra Azerbaigian e Armenia, Mosca aveva deciso di appoggiare Yerevan durante il conflitto per il Nagorno-Karabakh, la questione georgiana sembrava molto più complessa. Quali le cause di tale complessità?
In quasi tutte le neonate repubbliche non si assistette a un cambiamento radicale ai vertici: i “nuovi” leader non erano altro che i vecchi dirigenti dei partiti comunisti locali che agivano ora in un’ottica nazionale, ma restavano vincolati ideologicamente alla Russia. Il 21 dicembre 1991 il protocollo di Almaty sanciva la nascita della CSI, la Comunità degli Stati Indipendenti; questo escamotage, volto a rinsaldare i rapporti con la Federazione Russa e arginare le problematiche derivanti dalla creazione di confini, barriere doganali e dazi, era stato accolto favorevolmente da tutte le élite nazionali.
La formula “E’ meglio un male sperimentato, che un bene ignoto” sembrava attecchire perfettamente al milieu post-dissoluzione. La creazione di un mercato comune e di una “zona rublo” avrebbe permesso alle nuove repubbliche di evitare che l’immediata entrata in un libero mercato di stampo occidentale portasse a conseguenze nefaste quali la svalutazione di una possibile moneta locale, l’inflazione o a una “dutch desease” dovuta a un’economia troppo settoriale.
Considerando l’avversità provata verso la Russia (la cui economia non versava, peraltro, in buone condizioni), le tre Repubbliche Baltiche e la Georgia non entrarono a far parte della CSI. Per la Federazione Russa la perdita di un alleato nel Caucaso avrebbe potuto portare ad una perdita d’immagine oltre che di profitti.
La politica del presidente Gamsakhurdia inoltre, rappresentava appieno il rinato nazionalismo georgiano: non vi era spazio per le minoranze nelle amministrazioni locali, né queste godevano di una rappresentanza parlamentare. I Russi, che in Georgia costituivano il 6.3% della popolazione, risultavano completamente estromessi da qualsiasi posizione di potere.
Date tali premesse, i vertici del Cremlino si resero conto da subito di non poter esercitare il controllo sperato sulla Georgia; si decise pertanto che sarebbe stato opportuno, per il momento, giocare su una politica ambigua di appoggio delle minoranze nazionali.
Tale politica mirava a sostenere la repubblica autonoma di Abcasia e la regione autonoma dell’ Ossezia del Sud, fornendo loro un contributo economico e militare, il tutto in via non ufficiale. La vicinanza culturale di queste due regioni ai popoli del Nord Caucaso aveva portato a vere e proprie manifestazioni in Ossezia del Nord, volte a invitare la dirigenza russa a un intervento diretto. Nel febbraio del 1991 il Soviet Supremo dell’Ossezia del Nord rivolse ufficialmente un appello al presidente Gorbaciov per fermare il “genocidio” che i Georgiani stavano perpetrando in Ossezia meridionale. Tuttavia Mosca decise di non intervenire direttamente: “ Il Leader sovietico riteneva di poter attirare Gamsakhurdia in una nuova Unione capeggiata da Mosca, se ai Georgiani fosse stata data carta bianca nell’ Ossezia del Sud”.
Tale decisione spinse gli Osseti ( sia del Nord che del Sud ) ad appoggiare il colpo di stato nell’ agosto del 1991; la Georgia, che non prese posizione a sostegno dei golpisti, riuscì pertanto a conquistare le simpatie di Gorbaciov. Tuttavia, dopo la caduta del leader riformatore, Eltsin non fu in grado di controllare la situazione: quando membri dello stato maggiore, rivali del nuovo presidente della federazione, attaccarono basi georgiane muovendo da Vladikavkaz, Eltsin decise di raggiungere un accordo con la controparte georgiana prima che la situazione degenerasse. Il cessate il fuoco venne stabilito durante gli accordi di Dagomys, il 24 giugno 1992.
Più complessa ancora risultò la guerra in Abcasia: il 31 luglio 1992 la Georgia era stata riconosciuta come stato indipendente dalle Nazioni Unite e ciò le dava il diritto di intervenire nella propria amministrazione interna per tutelare l’ integrità della neonata repubblica. La Russia stessa aveva inoltre dichiarato di essere pronta a salvaguardare la sovranità georgiana. Quando scaturì il conflitto abcaso – georgiano, la Russia ufficialmente “sostenne entrambe le parti”; invero, il supporto segretamente fornito alla Repubblica Abcasa fu di gran lunga maggiore. La guerra si concluse con la sconfitta di Tbilisi, che perse definitivamente il controllo della regione autonoma. Con un esercito stremato e impossibilitato a contrastare le forze fedeli a Gamsakhurdia, Shevardnadze si vide costretto a rivolgersi a Mosca per salvare la Georgia ed evitare di perdere la guerra civile. La Russia poteva finalmente dettare le proprie condizioni e ottenere con la forza ciò che non aveva ottenuto in precedenza: il 9 ottobre 1993 anche la Georgia entrò nella Comunità degli Stati Indipendenti e acconsentiva alla presenza sia di peacekeepers russi sotto mandato della CSI nelle due regioni secessioniste, sia alla presenza di veri e propri soldati russi in quattro basi militari (Vaziani, Gudauta, Akhalkalaki e Batumi) in territorio georgiano. In ultimo, Shevardnadze fu costretto a nominare dei Russi e non dei Georgiani come ministro della Difesa, degli Interni e della Sicurezza, specchio della volontà di Mosca e non di Tbilisi. La Georgia era uscita dalla guerra civile, ma a caro prezzo.
Il mancato riconoscimento da parte russa di Abcasia e Ossezia del sud sarà sintomatico del fatto che le due regioni non rappresenteranno altro che pedine per la nuova politica espansionista del Cremlino. La presidenza Eltsin non avrebbe potuto concedere alla Georgia il pieno controllo sia sulla propria economia che sul proprio territorio: così facendo vi sarebbe stata per la Repubblica Caucasica, grazie a un nuovo presidente amato nell’Occidente, la possibilità di ottenere con successo ingenti prestiti da Stati Uniti e Unione Europea. La Georgia poteva vantare buone relazioni con la Turchia, membro NATO, e con un Azerbaigian in pieno boom economico dovuto allo sfruttamento di idrocarburi; non vi erano, inoltre, grossi attriti né con l’Armenia né con l’Iran.
Marco Antollovich
Il post precedente è al link Tra Russia e Stati Uniti. Storia della Georgia indipendente, M.Antollovich/8
Seguirà L’allontanamento dal Cremlino
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