Cap.2.3.3 della tesi “Tra Russia e Stati Uniti. Storia della Georgia indipendente” (M.Antollovich)
La Georgia nel Caos: il ruolo di Edward Shevardnadze. L’ epoca di Shevardnadze
La neonata Repubblica Georgiana all’arrivo di Shevardnadze, all’ inizio del 1992, versava in condizioni disastrose: Ossezia del Sud e Abcasia non nascondevano le proprie mire indipendentiste e filo-russe, mentre l’Ajara risultava sempre meno controllabile da Tbilisi. La struttura dell’apparato economico si stava sfaldando in modo apparentemente ancor più veloce rispetto allo sfaldamento a territoriale.
Come poté constatare tangibilmente Per Garthon, rapporteur svedese del Parlamento Europeo in Georgia, l’inflazione aumentava in modo allarmante: il rapido declino della produzione industriale e agricola era seguito da un’inflazione che raggiungeva il 50-60% mensile equivalente al 600-720 % annuo.
La nuova valuta, il “coupon”, rendeva gli stranieri sempre più restii all’idea di investire nel paese: si trattava di una valuta debolissima, in continua svalutazione e priva di potere d’acquisto. In breve tempo i salari divennero così bassi da non consentire alla popolazione di pagare sostanzialmente nulla: un coupon valeva all’incirca un centesimo di centesimo di euro e 1.000 coupon, pertanto, equivalevano a 10 centesimi. 18.000 coupon, il salario mensile, equivaleva a circa 2 euro. Quasi dieci anni dopo, nel 2002 uno stipendio medio andava dai 30 ai 100 lari, equivalente a circa 14-54 dollari statunitensi.
Dal 1990 al 1997 ebbe inizio un vero e proprio esodo di lavoratori georgiani verso la Russia, l’Unione Europea o gli Stati Uniti. Più di un milione di emigrati dal 1990 al 1997 lasciò il paese alla ricerca di ingaggi più remunerativi: circa 134.000 persone all’anno. Sebbene il tasso di disoccupazione rimanesse elevato (quasi il 14% nel 1999), tale ondata migratoria consentì un’entrata di capitale straniero grazie alle rimesse.
Shevardnadze si trovava dunque a ereditare un fardello gravoso e difficilmente gestibile. Eletto il 10 marzo 1992 preferì ottenere il potere attraverso un mandato parlamentare, piuttosto che impossessarsene con la forza. Le riforme che dovevano essere attuate per salvare la Georgia dal baratro nel quale stava precipitando erano tutte indissolubilmente collegate: la gestione dell’economia, della politica estera e di quella interna avrebbero determinato le sorti della Georgia negli anni successivi.
Il presidente neo-eletto (Edward Shevardnadze venne ufficialmente eletto presidente della Repubblica Georgiana il 16 novembre 1995) riconobbe dunque dapprima l’errore politico del suo predecessore in Ossezia del Sud: l’accettazione georgiana del cambio di status da “oblast autonomo” a “repubblica autonoma” avrebbe causato molti meno problemi rispetto a un intervento militare in un territorio impervio e sotto la tutela di Mosca.
La richiesta di scuse che ne seguì e l’apertura a un nuovo dialogo tra Sud-Osseti e Georgiani sembravano pertanto volte a ricostruire i rapporti tra i due popoli, non irreparabilmente compromesse.
La guerra in Abcasia aveva invece dato vita a uno scenario del tutto diverso: le strade di Tbilisi erano affollate da esuli senza casa dei territori conquistati e la partita per l’Abcasia sembrava lungi dall’esser conclusa; gli osservatori dell’OSCE avevano apertamente definito gli avvenimenti di Sukhumi “pulizia etnica”, ponendo la Georgia in una posizione di forza sul piano internazionale.
La terza regione autonoma, l’Ajara, la cui posizione sarebbe risultata di fondamentale importanza per la Georgia (l’ Ajara, regione georgiana al confine con la Turchia, acquisterà una grande importanza strategica per la Georgia, poichè vi sarebbe passata la pipeline Baku-Tbilisi-Supsa), continuava a essere governata da un signore della guerra locale, Abashidze, più vicino a Mosca che a Tbilisi.
In Ajara era infatti presente una delle ultime basi sovietiche in territorio georgiano e le più alte cariche dell’esercito russo vedevano in Abashidze un altro alleato nella lotta contro Shevardnadze. La repubblica di Ajara dunque, sebbene facesse parte de iure dello stato georgiano, non intratteneva con quest’ultimo nessuna forma di rapporto, né di dialogo. I contributi riscossi in Ajara restavano nella regione ed erano costituiti quasi esclusivamente dalle mazzette guadagnate per concedere il transito di mezzi e merci dalla Turchia alla capitale Tbilisi.
L’accordo tacito tra Abashidze e Shevardnadze, consisteva proprio nella ricerca di un modus vivendi attraverso un principio do ut des: l’amministrazione centrale non avrebbe interferito in alcun modo nella politica interna della regione autonoma, a patto che questa continuasse a esser parte della Repubblica Georgiana.
La dichiarata lotta alla corruzione, accompagnata da una relativa stabilità interna e dal prestigio esercitato dalla figura stessa di Shevardnadze, che si era guadagnato la simpatia e il rispetto dell’ Occidente – soprattutto in Germania e negli Stati Uniti – poichè, in qualità di Ministro degli Esteri dell’ Unione Sovietica, era stato promotore della politica di Glasnost e Perestrojka durante la presidenza Gorbaciov, consentirono una parziale ripresa dell’economia georgiana dovuta a un aumento degli investitori stranieri.
Pacificate le relazioni con la Russia grazie ai dialoghi tra il presidente georgiano ed Eltsin, Shevardnadze non fece mistero di voler avvicinare il proprio paese all’Occidente: al riconoscimento dell’indipendenza georgiana da parte dell’Unione Europea (23 marzo 1992) seguirono una visita del ministro degli affari esteri tedesco Genscher e l’apertura dell’Ambasciata statunitense il mese seguente.
Shevardnadze d’ora in poi avrebbe fatto appello all’Occidente e non alla Russia per risollevare le sorti del paese.
Sebbene il presidente esprimesse un sincero desiderio di entrare in Unione Europea, lui stesso si rendeva conto che raggiungere i parametri standard per l’accesso sarebbe stato impossibile in breve tempo: nel 2000 le entrate fiscali ammontavano a 25 milioni di lari, solo il 65 % del previsto, la disoccupazione si attestava attorno al 12% e l’economia sommersa influiva su quasi il 40% del totale.
Nel 1994 la Russia respinse la richiesta di Shevardnadze di essere integrata nella “zona-rublo”, nella speranza di limitare l’inflazione legandosi a una valuta forte. La Georgia dovette quindi volgere lo sguardo a Ovest alla ricerca di stabilità: cominciò a stringere dunque solidi legami con l’Occidente e, soprattutto, con gli Stati Uniti.
Poiché risultava palese che la Russia cercasse di destabilizzare il Caucaso per potervi giocare di nuovo un ruolo egemonico, il presidente georgiano intravide nell’avvicinamento agli Stati Uniti (e quindi, indirettamente, alla NATO) la possibilità di ottenere un appoggio esterno nella lotta alle repubbliche secessioniste e una garanzia contro una potenziale minaccia russa.
Nel 1999 la Georgia uscì dalla CSTO (Collective Security Treaty Organization. E’ un’ alleanza militare nata nel 1992, ma resa funzionale soltanto a partire dal 7 ottobre 2002, composta da Russia, Armenia, Bielorussia, Tagikistan e Kazakhstan. Georgia e Azerbaigian si sono ritirate dal Patto nel 1999, seguite, nel 2012, dall’ Uzbekistan) e dichiarò l’intenzione di diventare un membro effettivo della NATO nel 2005.
Tbilisi cominciò a ricevere istruttori dagli Stati Uniti quali, dopo la chiusura della base russa di Vaziani nel 2001, ottennero il placet georgiano per utilizzare la base abbandonata come area di rifornimento per le truppe in Iraq.
Già alla fine degli anni Novanta, la Georgia diede inizio a un ammodernamento dell’esercito, rifornendosi di nuove armi e apparecchiature da Israele e, in seguito, dall’Ucraina. Come dimostrazione dell’impegno preso, un contingente georgiano di 200 membri si unì alle forze NATO in Iraq; durante l’era di Mikheil Saakashvili tale contingente avrebbe raggiunto le 2.000 unità, rendendo la Georgia il più grande paese contribuente non membro come numero di uomini impiegati sul campo.
Un’altra ambizione di Shevardnadze era la costruzione del BTC: tale progetto faraonico prevedeva la costruzione di una pipeline che, sfruttando le risorse azere in Mar Caspio, avrebbe dovuto collegare le città di Baku, Tbilisi e Cheyan (Turchia), per rifornire il grande mercato turco e, da lì, trasportare il greggio in Europa.
Nel 1999 venne terminato il primo oleodotto non controllato dalla Russia: il BTS (Baku, Tbilisi, Supsa). Sebbene si trattasse di una pipeline in grado di trasportare complessivamente poco materiale, la sua realizzazione costituì una svolta materiale e simbolica per liberare il Caucaso dalla dipendenza dal giogo russo nell’approvvigionamento di idrocarburi.
La costruzione del BTC sarebbe risultata molto più complessa e costosa del previsto e il ruolo di maggior peso sarebbe stato giocato da Stati Uniti ed Europa, nel tentativo di diversificare i propri paesi fornitori.
Come affermò Alexander Rondeli :
“ Noi [Georgiani] abbiamo bisogno dell’oleodotto; in questo modo continueremo ad avere gli Stati Uniti dalla nostra parte contro la Russia. La Georgia non ha nulla da offrire al mondo, se non la sua posizione geografica”, aggiungendo inoltre che “non è il petrolio in sé ad avere importanza. Certamente creerebbe nuovi diritti doganali e tasse di transito, ma, ad ogni modo, quei soldi finirebbero una volta ancora nelle tasche delle persone sbagliate”.
Queste righe costituiscono un sunto preciso di ciò che rappresenterà, in quel periodo, la Georgia di Shevardnadze.La sua posizione geostrategica aumentò l’interesse degli investitori stranieri che vedevano nella piccola Repubblica caucasica un tassello fondamentale per la costruzione di quella che verrà definita“La Nuova Via della Seta”.
Tuttavia, il fallito tentativo di arginare la corruzione e un nuovo clima di instabilità politica avrebbero spinto i nuovi attori internazionali occidentali a ridurre progressivamente gli investimenti in Georgia: per correre ai ripari Shevardnadze si sarebbe dunque trovato costretto a riavvicinarsi (anche se solo in parte) a Mosca.
Un’opposizione composta da giovani filo-occidentali, contrari alla nuova politica del presidente, sarebbe andata col tempo ad acquisire un numero sempre maggiore di sostenitori e di consensi.
Fin dall’ inizio, tuttavia, la lotta alla corruzione non aveva dato i risultati sperati: più precisamente si era creata col tempo una fitta schiera di “alleati” del presidente, meglio noti come membri del “Circolo di Shevardnadze”, i quali avevano ampia facoltà di azione, quasi fossero svincolati dalle costrizioni della legge.
Ma cosa aveva portato alla nascita di questa cerchia così vicina al presidente? Sin dal suo ritorno in patria, Shevardnadze aveva combattuto i signori della guerra locali, che detenevano il controllo del mercato nero verso la Russia e la Turchia, padroni incontrastati dell’economia sommersa. Tale lotta aveva portato all’arresto degli stessi Kitovani e Joseliani e i controlli alle frontiere del nord del paese erano aumentati, anche se molte merci di contrabbando riuscivano comunque a oltrepassare i confini.
Considerando che combattere da solo il crimine georgiano sarebbe stata un’impresa ardua senza un appoggio politico-economico alla base, Shevardnadze dovette stringere accordi con i signori locali, come Abashidze, e con potenti uomini d’affari.
Tali misure risultarono efficaci nella lotta al mercato nero, ma resero il presidente sempre più vincolato agli interessi dei suoi protettori. Uno dei suoi nipoti, Nugzar, divenne uno degli uomini più ricchi in Georgia, mentre il neoeletto ministro degli Interni venne coinvolto in numerosi scandali di tangenti. Sebbene Shevardnadze fosse considerato complessivamente onesto, l’astio provato dalla popolazione verso la sua cerchia di eletti andò ad aumentare nel corso dei primi anni del 2000.
“Non è un mistero che far soldi è possibile solo avendo delle buone relazioni [personali] con Shevardnadze”, affermava in un’intervista al Georgian Messenger, il 30 maggio 2002, Mikheil Saakashvili, uno dei leader dell’opposizione e futuro successore di Shevardnadze.
Alle elezioni parlamentari del 1999 vennero riscontrate delle irregolarità dagli osservatori dell’OSCE presenti in loco, ma non sufficientemente gravi da inficiare il carattere democratico delle elezioni. Di tutt’altro avviso l’opposizione, che cominciò ad accusare il partito di maggioranza e il presidente stesso.
Shalva Natelashvili, leader dei laburisti, considerò che la Georgia si stava trasformando in“ una monarchia post-comunista su modello azero”.
Non a caso, nonostante il calo di sostenitori registrato nei sondaggi pre-elettorali, Shevardnadze ottenne un secondo mandato alle presidenziali del 2000.
Il 2 giugno del 2002 vennero riportati brogli elettorali alle elezioni “locali”, una sorta di prova generale per le ben più importanti parlamentari del 2003 e per le presidenziali del 2005. La mancanza di un censimento attendibile nella Georgia post-indipendenza e l’ambiguità dei documenti presentati ai seggi (vecchi passaporti sovietici, patenti, libretti della pensione privi di foto) consentivano a una parte della popolazione di votare svariate volte in cambio di qualche mazzetta.
L’opposizione intensificò le proteste: a guidarla vi erano Zurab Zhvania, leader dei Verdi, e Mikheil Saakashvili, leader del Movimento Nazionale. Sebbene il primo fosse il membro dell’opposizione più conosciuto all’estero (Zhvania era un convinto europeista, parlava fluentemente l’ inglese, e si era recato più volte in Europa per promuovere l’ idea di una Georgia europea, e per discutere di altre problematiche con altri membri dei partiti dei Verdi europei) e per lungo tempo più amato in patria, Saakashvili riuscì ben presto a essere apprezzato dalla folla grazie alla sue aspre critiche contro il presidente: lo slogan del Movimento Nazionale era “Georgia senza Shevardnadze”.
Dal 2003 la politica estera di Shevardnadze si fece sempre più sfumata e ambigua: Shevardnadze era filo-occidentale per una questione di immagine, non per una ragione ideologica.
Da un lato aumentarono le spese militari, accompagnate da un invio di truppe in Iraq, dall’altro le pressioni per entrare a far parte il prima possibile della NATO andarono affievolendosi e il ritiro delle truppe russe dalle basi in Georgia non costituì più una priorità. Se la costruzione degli oleodotti BTC BTS era incontrovertibilmente volta a sottrarsi dal giogo russo, così la riapertura della linea ferroviaria per Soci attraverso l’Abcasia e dei nuovi accordi siglati con Gazprom sembravano avvicinare nuovamente Tbilisi a Mosca.
Tale ambiguità non venne accolta positivamente dalle cancellerie occidentali e anche la popolazione, che non aveva visto alcun cambiamento considerevole del tenore di vita in dieci anni, era ormai stufa della politica di Shevardnadze.
Un nuovo triumvirato composto da Zhvania, Nino Burjanadze (futuro presidente georgiano ad interim) e Saakashvili, appoggiati dalla popolazione e probabilmente dall’ Occidente, avrebbe dato vita a una serie di proteste pacifiche, la cosiddetta “Rivoluzione delle Rose”, che avrebbe portato all’uscita di Shevardnadze dalla vita pubblica.
Marco Antollovich
Seguirà Cap.2: Georgia, pedina di un nuovo grande gioco. La Nuova Russia e la politica del “Near Abroad”.
Il post precedente sulla questione abcasa è al link: Tra Russia e Stati Uniti. Storia della Georgia indipendente, M.Antollovich/6
La foto di Eduard Shevardnaze è di AP via rferl.org