By Marco Antollovich e Luca Susic
Le recenti dichiarazioni di Philip M. Breedlove, NATO Supreme Allied Commander Europe, circa una possibile minaccia russa all’autoproclamata repubblica di Transnistria hanno scosso profondamente i media internazionali, ma soprattutto quelli italiani, che si sono affrettati a riportare la notizia con toni allarmistici. Ad aumentare la preoccupazione ci hanno pensato poi Andriy Parubiy, secondo il quale Mosca sta ammassando truppe in vista di un’invasione del paese, e la Polonia che, per bocca del portavoce del Ministro della Difesa, ha dichiarato che intende valutare le migliori offerte per rinnovare la sua difesa missilistica.
Concettualmente, tuttavia, affermare che la “Russia minaccia la Transnistria”, come riportato da numerose testate italiane e straniere, sembra essere un controsenso sintomatico della scarsa conoscenza dei trascorsi che hanno visto protagonista Tiraspol negli ultimi vent’anni.
La Transnistria, repubblica de facto indipendente dalla Moldavia dal 2 settembre 1990, vuole essere russa. La popolazione della regione, etnicamente ripartita tra un terzo di moldavi, un terzo di russi e altrettanti ucraini generalmente filorussi e russofoni, ha più volte manifestato la volontà di far parte della Federazione Russa. Già il 17 settembre del 2006 un referendum, tenutosi nell’area, aveva testimoniato che il 98,07% della popolazione era favorevole al ricongiungimento con Mosca. La comunità internazionale, però, non ne aveva accettato l’esito, accusando inoltre Tiraspol di brogli elettorali.
Se il referendum del 2006 ha lasciato l’Occidente complessivamente indifferente, lo stesso non si può dire dell’appello rivolto da Tiraspol al presidente Putin il 16 marzo 2014 in seguito agli avvenimenti di Maidan Nezalezhnosti. Sembra comunque improbabile che il Cremlino entri in guerra per difendere la popolazione russa in Transnistria, considerando che quella sottile striscia di terra che divide Moldavia e Ucraina è stata sostanzialmente ignorata per vent’anni. A conferma di ciò, lo stesso vice primo ministro russo Dimitrj Kozak il 24 marzo ha negato che “il governo abbia discusso una possibile annessione della Transnistria alla Russia”. Il quadro generale, tuttavia, potrebbe essere cambiato in seguito al referendum in Crimea e molti si interrogano su quali potrebbero essere le prossime mosse di Mosca, soprattutto alla luce del fatto che tutta l’Ucraina orientale a grande presenza Russa è in fermento. Se Putin intervenisse in difesa delle popolazioni del sud e dell’est ucraino, spaventate dal nuovo governo e dalle minacce rivolte alle minoranze non etnicamente ucraine, la Transnistria sarebbe solo l’ultimo territorio da annettere per unire tutte le regioni russofone metaforicamente più vicine a Mosca che a Kiev.
Pertanto, rebus sic stantibus, l’interessamento del Cremlino nei confronti della popolazione Transnistria può avere un solo significato immediatamente percepibile: la Moldavia non deve imitare le azioni ucraine. Se così facesse, l’annessione della Transnistria alla Federazione Russa minaccerebbe direttamente l’integrità territoriale di Chisinau, così come è avvenuto in Ucraina con la perdita della Crimea.
A nostro avviso, però, vi è anche un altro elemento che dovrebbe preoccupare gli stati occidentali, cioè la diffusione della protesta anti-Kiev anche a Odessa, Oblast’ abitato in netta prevalenza da ucraini (62,8% secondo il censimento del 2001), dove nei giorni scorsi migliaia di persone si sono radunate al grido di “Odessa è una città Russa” e “Referendum”. Si tratta di un dato particolarmente significativo poiché mostra che l’insofferenza verso il governo centrale si è estesa anche in zone più lontane dalla Russia e dove la componente russofona è composta in gran parte da cittadini non appartenenti al gruppo etnico russo.
Nonostante le proteste e i richiami alla vicinanza con Mosca siano in continua espansione, il Governo nazionale ha iniziato a utilizzare una retorica più dura e schierata apertamente contro l’imponente vicino. Ne sono la prova le recenti affermazioni di due esponenti chiave dell’élite di Kiev: Julia Tymoschenko e il già citato Andriy Parubiy. Come riporta il Kyiv Post, il 21 marzo, durante un’intervista televisiva, l’ex primo ministro ha sostenuto che i legami con l’Unione Europea saranno uno dei fattori chiave per unire il paese e che in questo momento difficile è quanto mai importante che i cittadini sostengano tutti i partiti al governo (tra i quali vi è anche la criticata Svoboda). Il 23 marzo, inoltre, ha confermato che l’Ucraina si riprenderà presto la Crimea. Come se ciò non bastasse per infiammare gli animi, nella giornata di lunedì 24 la maggior parte dei media russi hanno pubblicato l’audio di una telefonata avvenuta fra la pasionaria della rivoluzione arancione e il parlamentare Nestor Shufrych. Nella registrazione si può sentire la Tymoschenko che, dopo aver inveito contro Putin (dicendosi pronta a “sparare in faccia a questo sacco di m… ”), insulta pesantemente anche i russi di Ucraina, sostenendo che contro di loro debbano essere usate le armi atomiche. La protagonista di queste controverse dichiarazioni ha confermato la veridicità dell’audio, scusandosi però per il linguaggio scurrile, ma accusando i servizi russi di aver manipolato l’ultima parte (quella sulla minoranza russa in Ucraina).
Dal canto suo, invece, l’uomo forte dell’esecutivo si è concentrato più sul lato muscolare della contesa, evidenziando che le proteste filorusse sono organizzate da “estremisti” e che è importante “to unite against Russian troops that stand near Ukrainian borders from Chernihiv to Donetsk. They have more military forces than Ukraine, but Yanukovych had more riot police”.
Alla luce di ciò, è evidente che queste prese di posizione possono rafforzare la coesione dello schieramento anti-Putin, ma il costo rischia di essere molto alto. I richiami alla UE, alla NATO e alla contrapposizione alla Russia come elementi di unità nazionale, infatti, sono esattamente ciò che incontra la maggiore ostilità delle popolazioni russofile e che le hanno portate a schierarsi contro il nuovo governo. In definitiva, quindi, se il Governo centrale desidera tranquillizzare le regioni “separatiste” questo genere di dichiarazioni non sembrano essere le più efficaci, ma, anzi, rischiano di ampliare la frattura già esistente. Il continuo richiamo all’imminenza della guerra e alla totale responsabilità Russa per un eventuale disastro rischia inoltre di convincere ancor di più la popolazione russofila/russofona che solo Mosca possa difenderli dalla “vendetta” e aggressività dell’Ucraina.
Marco Antollovich e Luca Susic
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