Conclusioni della tesi “Gli interessi statunitensi in Asia Centrale: storia recente e partnership NATO” (L.Susic)
Capitolo 3: Conclusioni
La situazione in Asia Centrale è cambiata radicalmente dal momento in cui le cinque Repubbliche si sono dichiarate indipendenti. Da periferia sovietica, questa zona del mondo è divenuta il centro nevralgico per le operazioni Statunitensi in Afghanistan e terreno di caccia per le tre grandi potenze esistenti.
L’unico aspetto costante, con l’eccezione del Kyrgyzistan, è l’élite al potere, preoccupata soprattutto di salvaguardare la propria posizione, spesso portando avanti una politica ambigua tra SCO e Occidente. Questo è stato il caso soprattutto dell’Uzbekistan, dominato da un presidente abilissimo nello sfruttare l’importanza strategica del proprio paese per reprimere ogni forma di dissenso, a volte anche con la colpevole complicità di grandi democrazie.
Gli USA, che hanno avuto la possibilità di diventare il riferimento per i governi del Turkestan durante gli anni ’90, hanno saputo sfruttare molto bene le prospettive offerte dalla War on Terror contro i Talebani e Al-Qaeda, ostacolando il rilancio russo e la penetrazione cinese.
Il 2005 è stato l’anno della svolta, poiché ha rappresentato la prima vera battuta d’arresto subita dall’Amministrazione Bush in Asia Centrale. Nonostante l’appoggio di Karimov all’invasione dell’Iraq e gli stretti rapporti diplomatici, la situazione creatasi in seguito ai fatti di Andijan non è stata mai superata completamente e ha costretto Washington a riconsiderare la propria presenza in loco.
Questo ha rappresentato una grande occasione per i suoi rivali, che hanno sapientemente cavalcato l’onda del timore che l’Amministrazione Bush fosse l’organizzatrice delle rivoluzioni colorate e che anteponesse i diritti umani alla sopravvivenza dei suoi alleati.
Russia e Cina, invece, due Stati “not free” secondo Freedom House186, non hanno avuto problemi ad appoggiare direttamente regimi discutibili come quelli Centroasiatici, sebbene questa pratica abbia dato risultati incerti, mi riferisco nello specifico alla più volte citata relazione fra repressione e sviluppo dell’integralismo. Il rischio di queste politiche è di esacerbare gli animi e di radicalizzare lo scontro, come sostenuto dal già citato Croissant.
Sino all’insediamento di Obama gli USA si sono essenzialmente difesi, cercando di limitare i danni e assicurarsi la presenza almeno in Kyrgyzistan. Nel frattempo il rapporto fra CSTO (Collective Security Treaty Organization) e SCO andava rafforzandosi a seguito della creazione di un network per la lotta al terrorismo e ai traffici illeciti in Asia Centrale.
Attualmente è abbastanza chiaro quali siano le diverse impostazioni dei due grandi avversari dell’America:
- la Russia cerca di rinsaldare i rapporti con tutte le province del vecchio Impero Sovietico, al fine di evitare che lungo i suoi confini si instaurino regimi potenzialmente destabilizzanti (sia eccessivamente democratici sia integralisti islamici). Il Cremlino, inoltre, non può permettersi di perdere lo storico controllo energetico che esercita sui produttori del Turkestan;
- la Cina ha anch’essa dei duplici interessi. I materiali rari e le riserve energetiche sono alla base della sua politica economica nell’area, mantenendo, però, sempre un occhio vigile sui suoi interessi strategici (il gasdotto Sino-Turkmeno ne è un esempio). Nel contempo Pechino presta grande attenzione alle strutture di collaborazione in materia di sicurezza e controllo della criminalità, poiché una situazione critica ai suoi confini occidentali potrebbe destabilizzare il Sinkiang, abitato da una notevole minoranza islamica.
Come si può facilmente notare, gli obiettivi sono comuni, forse anche troppo. Ciò vuol dire che prima o poi Russia e Cina dovranno necessariamente confrontarsi su temi scottanti, come quello delle risorse energetiche. Quest’ultime sono abbondanti, ma possono garantire a una sola delle due potenze di diventare leader dell’Asia. Attualmente questo problema non si pone, visto che la priorità è stata l’allontanamento dall’area degli Stati Uniti, paese che spaventa ancora tanto per la sua capacità di sfruttare il proprio peso economico, politico e culturale.
Per usare le parole di Gűnter Knabe possiamo comunque dire che:
“They [Cina e Russia] have a number of common interests that are temporary and limited. But there are many more issues on which they are competitors – if not even enemies.”
A mio avviso il principale rivale degli USA resta la Russia, per la quale l’Asia Centrale (assieme al Caucaso) rappresenta il cuore della propria politica estera. Non riuscire a ripristinare il controllo esercitato su quelle zone per oltre due secoli significherebbe veder svanire le proprie velleità di grande potenza e dover rinunciare definitivamente alla sicurezza del confine orientale e alle enormi quantità di risorse ivi presenti. Anche Mosca, come Washington, cerca di sfruttare contemporaneamente il peso politico ed economico di cui dispone, sistema che le ha permesso di ottenere una sere di risultati importanti, come:
- la mutua garanzia sui confini comuni con il Kazakistan nel 2005;
- l’inizio di una più stretta collaborazione militare con il Kyrgyzistan a seguito della Rivoluzione dei Tulipani e culminata con l’accordo da 1,1 miliardi di dollari nel 2012 (si tratta di un accordo in virtù del quale Mosca fornirà a Bishkek 1,1 miliardi di dollari di materiale militare e 200 milioni da spendere per le esigenze dell’Esercito Kyrgyso);
- il trattato bilaterale Russo-Uzbeko del novembre 2009 (in virtù di esso il Cremlino può usare, in caso di necessità, la forza militare per aiutare il governo Uzbeko);
- il prossimo ingresso (entro la fine del 2013) di Kyrgyzistan e Tajikistan nell’Unione Doganale Eurasiatica composta da Russia, Kazakistan e Bielorussia (si tratta di un’unione doganale aperta agli ex membri dell’URSS allo scopo di migliorare l’integrazione economica fra gli associati. E’ stata fondata il 1° Gennaio 2010 ed è stata affiancata un anno dopo dallo Spazio Economico Comune (SEC), un’unione più ristretta in campo economico. Si tratta comunque di organizzazioni dalla responsabilità limitata, poiché politica estera, difesa e lotta al terrorismo sono materie che spettano alla CSTO (di cui sono membri tutti gli stati aderenti alla SEC) e alla SCO (a cui non partecipa la Bielorussia, ma l’Uzbekistan sì).
Gli Stati Uniti, dal canto loro, sono riusciti grazie alla politica di Obama a riallacciare buone relazioni con l’Uzbekistan e si sono impegnati a cercare di limitare la portata dell’Unione Doganale Eurasiatica, vista come un pericoloso rimando all’URSS.
A proposito di questo sono indicative le parole dell’ex Segretario di Stato Hilary Clinton:
“It’s not going to be called that [USSR]. It’s going to be called customs union, it will be called Eurasian Union and all of that […]But let’s make no mistake about it. We know what the goal is and we are trying to figure out effective ways to slow down or prevent it” (dichiarazione riportata dai media Armeni come ArmeniaNow.com in seguito 19° Consiglio Ministeriale dell’OSCE, tenutosi a Dublino il 6 e 7 dicembre 2012).
Più che un desiderio egemonico, però, il tentativo di Putin (Presidente della Federazione Russa dal 2000 al 2008, non potendo ricandidarsi per un terzo mandato consecutivo assunse la carica di premier fino al 2012, anno in cui venne nuovamente eletto Presidente) sembra essere orientato ad assicurare la stabilità interna e regionale, ottenibile, secondo lui, solo attraverso una più stretta collaborazione fra Stati vicini.
L’esito ultimo di tale progetto dovrebbe portare alla nascita dell’Unione Euroasiatica, la cui fondazione è prevista nel 2015. Si tratta di un’entità politica molto simile alla UE a cui, però, non parteciperanno due Paesi estremamente importanti nell’ambito Centroasiatico, cioè il Turkmenistan e l’Uzbekistan.
Un elemento di preoccupazione per gli USA è, secondo me, il grande interesse manifestato dal Vietnam e, soprattutto, dall’India per questo esperimento, come dimostrano i colloqui dell’aprile di quest’anno [2013, ndr] tra i rappresentanti delle due Repubbliche appena citate e il Presidente della Commissione Economica Euroasiatica, Viktor Borisovič.
Questi due paesi hanno cominciato a intraprendere i passi necessari a creare una cooperazione commerciale e finanziaria con l’Unione Eurasiatica al fine di raggiungere un FTA – Free Trade Agreement (accordo di libero mercato).
Nonostante queste scaramucce, comunque, Stati Uniti, Russia e Cina hanno un grande interesse in comune, cioè la lotta al terrorismo e ai traffici criminali a esso collegati. Non è assurdo pensare, perciò, che in un futuro prossimo questi paesi possano trovarsi a collaborare attivamente per combattere il problema. Ciò sarebbe soprattutto negli interessi di Mosca e Pechino, che subiscono le maggiori conseguenze considerata la vicinanza geografica, ma anche Washington ne trarrebbe vantaggio perché un suo coinvolgimento nella lotta le permetterebbe di accrescere notevolmente l’influenza sui paesi dell’area, fortemente danneggiati da questi fenomeni.
In conclusione, se si volesse riassumere in poche righe la radicale trasformazione della politica USA dal 1991 a oggi, si potrebbe dire che essa è stata estremamente influenzata dagli eventi internazionali che si sono succeduti. Come già detto, il punto di svolta è chiaramente identificabile nell’11 settembre 2001: l’amministrazione Bush, infatti, dovette cambiare improvvisamente marcia, scontrandosi con una realtà che sino ad allora aveva scarsamente considerato. L’invasione dell’Afghanistan, unita a una sapiente azione mediatica che fece confluire un ampissimo consenso alla Superpotenza appena colpita nel cuore, fece ottenere a Washington un momentaneo monopolio sull’Asia Centrale.
Una così massiccia presenza americana vicino a casa, però, indispettì i Russi e i Cinesi, che seppero sfruttare al meglio, pochi anni dopo, il mutato clima generale.
Nel 2005, infatti, l’opinione pubblica mondiale non giustificava più le azioni militari Americane nel mondo, soprattutto dopo la fallimentare campagna in Iraq. A questo Mosca e Pechino aggiunsero un’operazione volta ad aumentare il timore che i puntuali richiami USA al rispetto dei diritti umani incutevano nei governi delle Repubbliche centroasiatiche.
Fu così che le cosiddette rivoluzioni colorate vennero attribuite allo Zio Sam, accusato di cercare di eliminare l’élite al potere degli Stati coinvolti. La presenza Americana vacillò e, per la prima volta dal 1992, sembrò che Washington non riuscisse più a far pesare la propria importanza. La soluzione ai problemi non fu trovata immediatamente, ma appena con il Presidente Obama, fautore di una nuova gestione degli affari centroasiatici. La sua Amministrazione promosse una rinnovata idea della presenza Statunitense in Asia Centrale. Con essa la Casa Bianca non intendeva eliminare la tradizionale importanza attribuita al rispetto dei diritti umani, ma, conscia che questi erano osteggiati dai governi locali, decise di affiancarli a politiche attraenti in campo economico, come l’incremento della produzione energetica locale (vedi CASA1000) e lo sviluppo del Northern Distribution Network.
Luca Susic
Il post precedente è al link Gli interessi statunitensi in Asia Centrale: storia recente e partnership NATO, L.Susic/11
Mappa fornita dall’autore – The heritage foundation, leadership for America http://www.heritage.org/research/reports/2013/06/russias-eurasian-union-could-endanger-the-neighborhood-and-us-interests (ult. consultaz. 30/06/2013)
Per l’indice di questa tesi di Luca Susic clic qui:
INDICE Introduzione |
Capitolo 1. L’Asia Centrale |
1.1 Storia: 1730-1991 |
1.2 Risorse Naturali e Sviluppo Economico |
1.2.1 L’Acqua |
1.2.2 Petrolio e Gas |
1.2.3 L’uranio |
Capitolo 2. La politica estera Statunitense in Asia Centrale |
2.1 L’eccezione alla regola: l’Uzbekistan |
2.2: L’11 Settembre e gli anni 2001-2004 |
2.3: 2005-2008, gli USA arretrano |
2.4: La prima Presidenza Obama |
Capitolo 3. Conclusioni |
Allegati |
Bibliografia |
Sitografia |