By Vincenzo Ciaraffa
E’ morto il senatore Giulio Andreotti, il politico più longevo e discusso dell’Italia repubblicana, e la campana a morto che rintocca per lui ci intristisce sinceramente, forse perché presagiamo che essa suona anche per noi che abbiamo fatto in tempo a votarlo, o ad incensarlo, o ad avversarlo.
Ritrovare il senso della nostra umana caducità al cospetto della sua bara non deve, però, impedirci di dare un giudizio sul politico la cui esistenza si è intersecata con quella di tre generazioni d’italiani. Su Andreotti boiardo della Democrazia Cristiana, sette volte presidente del consiglio, diciotto volte ministro, sette lauree honoris causa e presunto amico di Totò Riina, è stato scritto di tutto, troppo per una sola vita: per i suoi agiografi fu uno statista di eccelsa levatura, per i detrattori Belzebù in persona. In realtà non fu né l’uno, né l’altro e se – nel bene e nel male – potè giganteggiare sul proscenio politico nazionale per quasi settant’anni ciò fu dovuto unicamente al fatto che egli fu un attore estremamente versatile e disinvolto: poteva essere, allo stesso tempo, Commendatore della Corona d’Italia (cioè di fede monarchica) e parlamentare repubblicano senza problemi di coerenza o di principii.
Non vi era negozio politico o compromesso al quale si sottraesse se questo serviva alla conservazione del suo potere, che non fu né muscolare come quello di Craxi, né “sensuale” come quello di Berlusconi, ma molto più discreto e devastante. Infatti, la gestione e la conservazione del potere di Andreotti si basavano principalmente sulla scelta dei funzionari dello Stato, la quale avveniva non secondo un criterio meritocratico, ma per appartenenza partitica o correntizia, anzi, meno capacità possedevano i prescelti e più possibilità avevano di rifulgere nell’empireo andreottiano, dove non erano ammessi competitori.
Fu così che ci trovammo ad avere medici a dirigere gli istituti che amministravano le case popolari, geometri a presiedere le ASL e studenti universitari laureatisi grazie ad un incredibile numero di esami dati quando era in corso la campagna elettorale del solito docente di fede andreottiana.
Nel 1978, l’Inossidabile, com’era chiamato Andreotti dai suoi detrattori, arrivò al punto di nominare presidente della Consob, la commissione che vigila sulla Borsa, un suo fedelissimo perché si trattava di un «Industriale partecipante in società di esercizio cinematografico». In effetti, questi gestiva il teatro Brancaccio di Roma, famoso all’epoca unicamente per gli spogliarelli. Gli effetti perniciosi che una tale “selezione” ha prodotto sulla società italiana e sul funzionamento della macchina statale sono sotto gli occhi di tutti anche perché li stiamo pagando a caro prezzo. Qualche lettore obietterà che così facevano tutti i politici, il che è vero, solo che Andreotti fu l’unico a praticare il clientelismo su base scientifica!
Detto questo, non crediamo che egli sia mai stato mafioso, o protettore di mafiosi come Totò Riina, o autore di mene – più o meno segrete – volte a sovvertire lo Stato, anche perché non aveva nessun interesse a cambiare un sistema di potere che, ormai, gli calzava come un pedalino.
Ecco, se una colpa si deve addebitare al defunto senatore, è quella di aver potentemente contribuito a ridurre lo Stato come il pedalino delle ragioni partitocratiche e correntizie della Democrazia Cristiana e delle sue ambizioni personali.
Comunque, chi meglio di tutti riuscì a sintetizzare in poche righe cosa è stato realmente Andreotti fu Indro Montanelli il quale, come tutti ben ricordiamo, soleva intingere la penna nell’acido muriatico: «Quando si recano a messa insieme, De Gasperi si sofferma a parlare col Padreterno, Andreotti col sagrestano». Perché – sottintendeva l’inimitabile Indro – il sagrestano votava, il Padreterno no. Almeno fino a ieri.
Vincenzo Ciaraffa
Foto: 30giorni.it