By Vincenzo Ciaraffa
Una bolla di irrealtà
Bill Emmott, saggista, corrispondente della rivista inglese The Economist ed editorialista de La Stampa di Torino, il 10 dicembre scorso ha incentrato il suo editoriale sul fatto che quello nostro è un Paese che rifiuta di guardare in faccia la realtà.
Benché non abbia in grande considerazione l’equanimità di giudizio dei giornalisti britannici quando riferiscono dell’Italia, lo scrivente stavolta è più che d’accordo con l’esimio collega d’oltremanica.
In effetti l’Italia rifiuta di guardare la realtà dal 26 luglio del 1943, dal giorno dopo la caduta di una ventennale dittatura che non era scesa dalla luna, ma era stata la risultante dei molti errori commessi dalla classe politica negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra.
Per mantenerci almeno noi nel campo della realtà/oggettività della storia, dobbiamo dire che quella dittatura poteva essere sconfitta sul nascere se le Forze Armate avessero garantito la difesa dello Stato liberale, la classe politica fosse stata compatta e la Chiesa fosse stata coerente col suo magistero di giustizia, di pace e di libertà. E, invece, le cose andarono molto diversamente.
A Vittorio Emanuele III che gli chiedeva della volontà dell’Esercito di stroncare la cosiddetta marcia su Roma dell’armata Brancaleone fascista, l’allora Capo di Stato Maggiore, Generale Diaz, diede una risposta che non lasciava spazio all’immaginazione del re che già di suo ne aveva poca: «Maestà, l’Esercito farà il suo dovere ma è meglio non metterlo alla prova». Fece da riscontro all’ignavia dei militari la consueta frammentazione della classe politica italiana che, invece di adoperarsi per favorire il ritorno al governo di Francesco Saverio Nitti, l’unico ad aver capito quale pericolo il fascismo rappresentasse per l’Italia e tra i pochi in grado di tenere insieme le variegate forze che vi si opponevano, preferì procedere divisa, disordinata e anche patetica.
Infatti, il massimo sforzo che i politici del tempo riusciranno a fare per opporsi alla nascita della dittatura sarà il romantico, ma inutile, ritiro di protesta sull’Aventino: bisognava, invece, essere capaci di organizzare una contromarcia su Roma dei partiti parlamentari, senza avere paura dei manganelli e dell’olio di ricino! Tutto ciò mentre la Chiesa, per bocca di Pio XI, definiva Mussolini “l’uomo della Provvidenza”.
Da quel momento, e per i successivi vent’anni, gli italiani avrebbero vissuto in una bolla d’irrealtà, in uno stato di esaltazione permanente, drogati da una propaganda scientifica, dal passo romano, dalle parate militari sulla via dei Fori Imperiali e dalle adunate oceaniche a Piazza Venezia. Insomma, essi finirono per convincersi per davvero di poter rinnovare i fasti imperiali dell’antica Roma, rifiutando di vedere una realtà che era compenetrabile da qualsiasi intelletto che fosse in pienezza di sé: la caput mundi esprimeva un potenziale militare e produttivo (basato sulla mano d’opera a costo zero, la schiavitù) praticamente inesauribile mentre l’Italia fascista era irrimediabilmente povera, dove si moriva ancora di malaria e pellagra.
Vennero, poi, l’alleanza con la Germania nazista, le leggi razziali, un’assurda guerra d’aggressione, una rovinosa sconfitta militare, l’armistizio dell’8 settembre 1943, la fuga del re e del governo, la nascita della cosiddetta Repubblica Sociale e l’inizio della guerra civile in un Paese diviso in due e dove, ormai, scorrazzavano ben otto eserciti stranieri.
Vincenzo Ciaraffa
segue Parte II
Foto: egittologia.net