By Vincenzo Ciaraffa
L’Islam riuscì ad affermarsi grazie ad un’organizzazione militare che era stata concepita per realizzare la guerra di aggressione – un’aggressione violenta, continua, inarrestabile e feroce – il che presupponeva l’impiego massiccio di truppe celeri come la cavalleria leggera. A tale scopo i beduini, che non avevano mai utilizzato il cavallo in guerra, divennero cavallerizzi eccellenti che si lanciavano alla carica agitando lunghe, flessibili lance di bambù, mentre i reparti di fanteria tormentavano il nemico con il lancio di giavellotti e frecce.
All’urto delle fanatizzate, agili armate islamiche non era facile resistere da parte di compagini militari che avevano ereditato della legione romana l’ordine chiuso, sicché i primi eserciti musulmani non ebbero necessità di inquadrare tantissimi soldati, dei quali del resto non disponevano. Per tale motivo la tradizione musulmana, per tutte le battaglie più famose, può porre in grande rilievo la sproporzione esistente tra i suoi eserciti e quelli dei miscredenti, prova solenne – sostiene – della benevolenza di Allah.
La tattica degli eserciti islamici non era in realtà complicata: la cavalleria, che comprendeva anche reparti cammellati, attaccava, quasi sempre, di notte od all’alba, con lo scopo di cogliere il nemico alla sprovvista nei suoi accampamenti, mentre la fanteria, protetta sui fianchi dagli arcieri, aveva funzioni di appoggio per la cavalleria sulla cui scia, poi, si lanciava all’assalto per neutralizzare la residua resistenza dello scompaginato nemico. Anche se, in realtà, il ricorso all’imboscata fu la principale caratteristica tattica degli eserciti della mezzaluna.
I combattenti arabi, in particolare i beduini, indossavano una lunga tunica e coprivano il capo con un turbante od un cappuccio, mentre sulle maniche, solitamente variopinte e ricamate, infilavano i tiraz, bande sulle quali riportavano versetti del Corano: una sorta di quel Gott mit uns che i soldati tedeschi porteranno impresso sulla placca del cinturone. L’armamento principale della fanteria islamica era costituito da una spada diritta (saif), dalla lancia (rumh) e da uno scudo rotondo; gli arcieri, invece, oltre alla tunica indossavano brache a sbuffo di origine persiana e la faretra contenente una trentina di dardi, esauriti i quali mettevano mano alle fionde.
I cavalieri erano dotati di lancia, spada, pugnale e scudo che, però, doveva essere piccolo, di metallo leggero od in legno rivestito di cotone perché, stante la tattica seguita, il loro equipaggiamento non poteva essere pesante.
La marina, composta principalmente da galere agili e veloci, partecipò attivamente alle spedizioni militari che diffusero la fede ed il potere musulmano anche se, fino alla battaglia navale di Lepanto, lo fece prevalentemente in funzione di supporto logistico alle truppe di terra. Verso l’VIII secolo d.C., quando l’impero arabo-musulmano raggiunse la sua massima espansione, l’unità islamica stava già frantumandosi nelle fazioni dei sunniti (arabi ortodossi) e degli sciiti (arabi eterodossi) e la conseguenza fu la nascita di tre centri di potere, quali i Califfati di Damasco, Cordova e Bagdad.
L’impero, quindi, pur restando nominalmente unito da forti vincoli religiosi, vide i Califfati rendersi sempre più autonomi, quando non rivali tra loro. Questa situazione, unita alla pressione di nuove popolazioni, tra le quali i Turchi, alle frontiere settentrionali, fu anche la principale causa della fine della preminenza araba nell’Islam. L’imperio dei turchi, completamente affermatosi tra l’XI ed il XV secolo, non mutò i termini della conflittualità tra Oriente ed Occidente, conflittualità che, se vogliamo, era iniziata molto prima di Maometto, addirittura al tempo della guerra di Troia. Generazioni di studenti hanno dovuto imparare a memoria l’esortazione di Laocoonte, il sacerdote di Apollo che a Troia, ovvero nella Turchia pre-islamica, ammoniva i suoi compatrioti a diffidare degli Achei, degli occidentali: «…equo ne credite, Teucri. Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentes ! » (Eneide, II, v. 48,49). Purtroppo l’infelice sacerdote di Apollo non ebbe la soddisfazione di constatare che aveva visto giusto, perché venne stritolato, assieme ai due figli, dai grossi serpenti marini mandati da Poseidone, la quale parteggiava per gli Achei, cioè per gli occidentali. Virgilio, senza supporlo, mise in bocca a Laocoonte l’introvertibile verità secondo la quale non v’era da fidarsi degli occidentali, i quali si presentarono in Medio Oriente ed in Asia sempre da rapaci conquistatori: con la flotta di Agamennone, con le falangi di Alessandro il Grande, con le quadrate legioni di Roma o con la Compagnia delle Indie.
Non è azzardato – a questo punto – ritenere che alla spinta verso Occidente dell’Islam non fosse estraneo uno spirito di revanche che, purtroppo, non si è ancora sopito. Quando Maometto morì, gli europei, assorbiti dalla minaccia dei popoli germanici, non potevano neppure immaginare il pericolo che, nel giro di pochi anni, si sarebbe abbattuto su di loro; fu per questo motivo che l’attacco arabo li colse di sorpresa, impedendo l’abbozzo di una comune difesa. Ma la velocità dell’avanzata musulmana ebbe del prodigioso non soltanto nel bacino del Mediterraneo: in poco più di un decennio dall’inizio della predicazione di Maometto, dal 634 al 637 d.C., essi si impadronirono della fortezza bizantina di Bothra, conquistarono Damasco e, a seguito della battaglia dello Yarmuk la Siria, poi Gerusalemme e, successivamente, la Mesopotamia e la Persia.
Motivare tali rapide conquiste soltanto con la debolezza degli eserciti avversari è insufficiente a spiegare un trionfo così completo dei musulmani, anche perché i risultati raggiunti, oltre ad essere al di sopra della loro reale potenza militare, erano superiori anche alla loro capacità di fondersi con i popoli che, via via, conquistavano. La domanda che si pone a questo punto è: quale fu la vera ragione del successo della penetrazione islamica in Medio Oriente, in Oriente in Spagna e nei Balcani? La risposta – più che di ordine militare – è di ordine morale perché, mentre i barbari non ebbero un progetto spirituale da opporre al Cristianesimo, gli islamici erano esaltati portatori di una fede semplice, di facile presa per popoli che non avevano assimilato del tutto la complessità del mondo latino.
Se a questo si aggiunge che, almeno in principio, essi non erano integralisti ed ai popoli conquistati non chiedevano altro che obbedire alle loro leggi, si contorna meglio il perché della fortuna dei loro eserciti. Ma Islam significa sottomissione a Dio ed era fatale che – presto o tardi – i suoi seguaci più fanatici sentissero il dovere di imporlo con la forza delle armi agli infedeli, i quali dovevano essere asserviti all’Islam, pagare le tasse all’Islam, ma per tutto il resto indegni di appartenere alla umma.
A riguardo delle tasse, gli islamici non ci andavano proprio con la mano leggera, tant’è che l’espressione «prendere per il collo» deriva dalla loro abitudine di cingere il collo dei contribuenti con un laccio di cuoio sul quale un complicato sistema di nodi attestava l’avvenuto pagamento delle tasse: per verificare i pagamenti gli esattori dovevano – appunto – prendere i contribuenti per il collo.
Vincenzo Ciaraffa
L’articolo è pubblicato sul mensile Echi della Valle Olona (numero di luglio-agosto) attualmente in edicola.
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