Lug 15, 2012
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“Stile scanzonato come antidoto contro il pianto della coscienza”, è L’armata emotiva di Vincenzo Ciaraffa

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Mi ha lasciato l’amaro in bocca. Non tanto per ciò che vi è scritto, ma piuttosto per il fatto che non sono del tutto sicura che davvero l’autore non volesse lasciarcelo sul serio l’amaro in bocca. Che, insomma, tutto ciò fosse deliberato.

È un registro giocoso, a tratti licenzioso, molto spesso gustosamente comico, ma che sfocia nella critica aperta, lo stile che Vincenzo Ciaraffa ha adottato nel suo libro L’armata emotiva, analisi semiseria degli ultimi 150 anni di storia degli italiani con un rapido excursus fino alla nascita di Roma.

Che vi siano tanti livelli di lettura, molteplici linee da seguire a partire dalla colonna sonora delle canzoni popolari italiane alla scansione inesorabile degli eventi, non c’è nessun dubbio. È ciò che in fondo ci si aspetta da un libro sulla storia scritto da un autore che non si ferma alle apparenze.

Ma è la presenza di elementi  pericolosamente attuali – quasi che le lezioni apprese non fossero state per niente apprese! –  che colpisce. Visti tutti insieme, dentro lo stesso libro, questi problemi irrisolti risultano prepotenti e giganteschi.

Quasi una malattia a cui ci si è rassegnati e che proprio per questo risulta incurabile.

Mancanza di capacità di analisi, ristrettezza di vedute, assenza di strategie, periodo di comando come occasione per fare carriera più che per crescere professionalmente. E poi gli yes men di Cadorna, l’assenza di meritocrazia, l’attesa di ordini che non arrivano mai quando occorrono. Sono solo alcuni degli elementi di denuncia presenti nel libro.

La figura dell’ufficiale che si è affermata oggi, tanto per fare un doloroso riferimento, risulta molto vicina a quanto previsto dal generale Cadorna, ricorda l’autore: “impiegatizio, fatalista, pavido di fronte ai superiori, indifferente se pure non disonesto nei confronti dell’inferiore, al pari dell’ambizioso senza scrupoli”.

Fa male leggere questo da chi, Ciaraffa, appunto, nelle Forze Armate ci ha prestato servizio tutta la vita e che ritiene, come scrive, che le Forze Armate italiane siano l’unica forza armata al mondo a vergognarsi di sembrarlo.

Quasi che fosse un imbarazzo si parla di operazioni fuori area come di operazioni di pace, abolendo la parola guerra a tutto vantaggio dell’impreparazione anche psicologica di chi poi in teatro operativo la guerra la affronta per davvero. Di più, nell’interpretazione dell’autore le stesse operazioni sul territorio nazionale diventano il triste emblema di ciò che in realtà è uno stato d’assedio prima ancora che uno stato.

Un surrealismo che si ripete nel richiamo all’intelligente creatività in mancanza di mezzi e di soldi per l’addestramento e, più in generale, per gli strumenti utili anche solo per fronteggiare le riparazioni di routine, se non proprio le battaglie alle foglie d’autunno che persino mio nonno ricorda. Un filo conduttore, insomma, questa emotività, che non ci ha portato da nessuna parte, come si intuisce, se non ad avere una classe politica tutt’altro che serena e vertici militari decisamente compiacenti.

L’allegra rilettura del bidone preso da Garibaldi a Fino Mornasco, sposando una marchesina incinta di un altro, o della sconfitta dei prussiani a Valmy, per colpa di una sindrome gastrointestinale dovuta all’uva acerba, non sanano il cinismo della denuncia dello stato di fatto. Almeno, non con me.

Ed è così che emotività, irrazionalità, paternalismo e demagogia presentati come la cifra delle nostre istituzioni e delle nostre Forze Armate, quattro temibili cavalieri dell’Apocalisse, mettono il malumore.

Se non l’amaro in bocca, appunto, per ciò che ora penso l’autore avesse in animo davvero di trasmettere.

Paola Casoli

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Afghanistan · Forze Armate · Iraq