Non chiamiamolo ritiro, ma trasferimento graduale.
La fine della missione Isaf, che vede oggi più di 130mila militari Nato e non schierati in Afghanistan dietro mandato delle Nazioni Unite con l’obiettivo di assistere il governo centrale nell’espansione della sua autorità su tutto il territorio afgano, non sarà un ritiro ma una trasformazione di Isaf in elemento di sostegno alle forze di sicurezza afgane (ANSF) mano a mano che queste si sviluppano.
L’approfondimento sull’Afghanistan e sulla missione Isaf, online sul sito della Nato in connessione al summit in corso a Lisbona, appare più come un insieme di regole di linguaggio che un documento informativo sulla situazione.
Almeno per quanto riguarda la parte relativa ai principi della transizione, o Inteqal, in lingua locale, sia dari che pashtu, la spiegazione di quanto sta avvenendo sottolinea alcuni aspetti lessicali di primaria importanza.
In primo luogo non si parli di ritiro, così facendo si evita che la connotazione in questo caso negativa del termine si ripercuota sull’intera missione. Ma prima ancora non ci si vincoli a rigide date di calendario, visto che il processo di transizione è legato alla valutazione delle condizioni sul terreno. Questo eviterà ai media di ricordare gli appuntamenti con la cronaca (ma è anche un messaggio per un pubblico più vasto, se si legge bene tra le righe).
I rappresentanti civili e militari della comunità internazionale assumeranno gradualmente il ruolo di sostenitori, di mentori, di facilitatori con l’obiettivo del sostegno alla sicurezza, alla governance e allo sviluppo. Queste saranno dunque le parole chiave in ambito diplomatico e mediatico.
Sul piano operativo si parlerà di “dividendi della transizione”. Ovvero di forze di Isaf che, assottigliandosi per il venir meno del vecchio ruolo, vengono reinvestite in aree dove la transizione è a uno stadio meno evoluto. Questo a livello di distretti locali. Mentre i Provincial Reconstruction Team (PRT) subiranno una evoluzione, che al momento è genericamente definita come “modello di sviluppo tradizionale”.
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Fonte: Nato
Foto: Nato