Kosovo e Afghanistan fa poca differenza. In entrambi i casi si sono volute leggere le ultime elezioni come espressione di indipendenza e autonomia di quei popoli. Come conferma al mondo intero del successo ottenuto con l’intervento occidentale, che è alla ricerca di legittimazione per i soldi e il tempo investiti nel ricostruire nazioni del mondo.
Il Kosovo ha affrontato ieri le prime elezioni dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza. Come l’Afghanistan, anche il Kosovo appare spinto dallo zelo occidentale a ripensare la propria struttura sociale secondo schemi estranei alla regione. Con l’utilizzo di leader politici volenterosi incoraggiati e poi sostenuti da chi opera dall’esterno.
Pochi i colpi di scena. In fondo i vari Ramush Haradinaj e Abdullah Abdullah fanno parte del gioco e vivacizzano uno schema che altrimenti apparirebbe piatto. Lo scenario si arricchisce con l’intervento dell’ambasciatore americano che si adopera per la buona riuscita delle elezioni sia nel Paese dei Corvi che nel Paese delle Montagne, per poi completarsi con acclamazioni alla vittoria sia da parte del leader politico per i voti di conferma sia da parte degli internazionali per l’affluenza alle urne.
In realtà in Kosovo meno della metà degli aventi diritto si è presentato ai seggi (45,36% secondo la Kosovo’s Central Election Commission dell’Osce) e in Afghanistan tre mesi fa, come si è saputo ancora prima che l’Onu ammettesse pubblicamente i brogli, qualcuno ha votato anche per l’amico che non si è presentato preoccupandosi di scegliere per lui.
Forse questi bassi livelli di maturità vanno letti diversamente, magari ripensando l’intervento occidentale secondo un’altra dimensione dato che ormai la presenza internazionale appare come sclerotizzata e generatrice di velleità assistenzialistiche.
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