pubblicato da Pagine di Difesa il 18 maggio 2005
“Sì, ma questo non lo scriva per favore”. Ma come, avevo ancora l’adrenalina a mille per il rally sul fuoristrada del comandante che mi arriva la classica richiesta destinata ai giornalisti considerati pericolosi.
Ecco, lo sapevo, è capitato. Io, embedded per un webzine di settore, portatrice sana di giubbetto antischeggia ed elmetto e, soprattutto, preparata con cura ai gradi di classifica di segretezza, mi trovo a fare i conti con un rally top secret. E senza neppure troppa fatica per liberarmi dal mio escort officer che se ne è rimasto come Butterfly sul molo: “La dottoressa viene con me a consegnare aiuti umanitari a una famiglia rom. Il tempo di fare qualche foto e poi rientriamo”.
E che rientro! La Nissan verde-esercito saltava sulle zolle smosse dalle ruspe. Sotto le ruote cartacce e lattine schizzavano lontano, pantegane e bambini nudi fuggivano ridendo così sporchi da farsi concorrenza. Sono scesa da quell’auto come Anita Ekberg è uscita dalla Fontana di Trevi. “Divertita?” “Da morire, comandante!” “Sì, ma questo non lo scriva per favore”.
Sarà stato perché a guidare era proprio lui, il comandante in persona, o forse per il fatto che a quel fuoristrada era stata cancellata una delle scritte identificative della missione, ma il divieto era perentorio e gli occhi del vice comandante anche. Neppure sotto embargo, perentorio e basta. “Vede, queste auto vanno usate così, altrimenti si annoiano”.
Al mattino successivo sento bussare con decisione alla porta della mia camera: “Tutto bene? Viene a prendere un caffè?”. Non me lo faccio scappare. E’ di nuovo il comandante che ora si informa del mio stato di salute dopo lo shock ai neuroni. Carino. Decido di sbrigarmi per non perdermi il caffè della mensa – ah, chissà come sta la mia moka a casa – e mi infilo alla svelta il mio badge al collo.
“Dormito bene?”, chiede premuroso il comandante. “Insomma”. Spiego che la notte è stata un po’ agitata per colpa di un calpestio concitato e di una sveglia che continuava a suonare come se qualcuno l’avesse dimenticata accesa e poi, al rientro, tentasse disperatamente di trovarla nel buio della stanza. “Ottima la camera vip, peccato per il casino di stanotte” dichiaro con piglio da star mentre rincorro il comandante che all’improvviso allunga il passo.
E’ uno sportivone e tiene bene i rientri notturni alle ore piccole, penso di lui mentre ricordo l’impegno che lo aveva tenuto fuori fino a tardi la sera precedente senza per questo fiaccare la sua abitudine di farsi il giro dell’aeroporto di corsa all’alba. Intanto ci avviamo per il caffè. Strada opposta a quella della mensa. Mah, forse non conosco ancora abbastanza la base e questa è solo una scorciatoia per arrivare prima. Si sente da lontano una melodia, anzi no, è un coro. Viene dal primo piano di una palazzina di alloggi da cui spuntano salami appesi al soffitto tra mutande e calzini stesi ad asciugare.
Non stiamo andando là, penso. Di sicuro il comandante mi porta al circolo ufficiali, ne sono convinta. Dopo l’alloggio vip mi merito un caffè italiano, lo dò per certo. “Dottoressa, venga: la stanno aspettando”. Il coro adesso è fortissimo e ci sono anche gli applausi.
Oddio, ci stiamo dirigendo inesorabilmente verso i salami e le mutande. Chissà cosa direbbe mia mamma se sapesse che sto per varcare le mitiche soglie di Orione. Eccolo, il gruppo. Un piano intero di palazzina alloggi con tanto di scritte evocatrici alle pareti. Qui ognuno ha un nickname ricamato da lasciare in bacheca al momento della partenza e una carica amministrativa assegnata secondo ferree regole interne.
I ragazzi appena alzati mi suonano una serenata mattutina e il caffè è buonissimo: caffettiera italiana e Nastrine del Mulino Bianco. Se si è un po’ giù di affetti c’è anche la Nutella. “Qui abbiamo un sindaco – mi spiegano – e vari assessori, ma su tutti comanda il comandante della base. C’è un codice da rispettare con tanto di norme inderogabili. Mai successo un casino. E tu sei la terza donna che entra qui”.
Sono onorata, mai visto tanto rigore in una atmosfera allegra e altruista: il gruppo Orione dell’aeroporto Amiko organizza feste per i bambini e consegne di aiuti. La terza donna. In meno di due secondi realizzo che è un bel merito e stabilisco di vantarmene praticamente da subito. Ma cambio idea in fretta: questi vogliono una contropartita! “Devi lasciare qualcosa di tuo. Vedi, qui sono appesi dei collant e abbiamo anche un altro souvenir femminile. Adesso tocca a te: preferisci lasciarci subito le tue mutandine o torni domani con il perizoma?”
Oddio, perizoma. Non ne ho portati con me. Insomma, se anche ne portassi non potrei lasciarne qui… voglio dire… in terra straniera… lontano dalla mia casa… così… e poi c’è chi mi controlla sempre lo zaino alla partenza: “Due perizomi e due reggiseni vedremo al ritorno”. Ecco, non so se mi sono spiegata.
Adoro le serenate, questi ragazzi conquistano. Accidenti, datemi la Nutella. Sento che mi manca casa mia e oggi devo incontrare il comandante del Cimic con il suo bagaglio di bei progetti per la gente che soffre. E chi dico io non mi ha mandato messaggi stanotte. Nutella, per favore. Abbondante, grazie.
Per la sera il comandante ha un mega programma: cena in un ristorantino tipico con un rappresentante dell’Osce e una coppia di imprenditori locali. Ci faranno compagnia il comandante della polizia militare, appena arrivato alla base per dare il cambio al collega a fine missione, e altri uomini di staff. “Niente interviste, per favore”. Yes, sir, I understand, sir. Lascio nella mia camera vip il minidisk ma non mi separo da penna e taccuino: perquisitemi pure, ma non abbandono il bastone della mia vecchiaia.
Si parte. Il comandante passa a prendermi con autista e interprete e io salgo di nuovo sulla mitica fuoristrada del rally mettendo a dura prova i miei neuroni. “Dottoressa, come è andata con il Cimic? E il pranzo al comando?” “Bene, bene, tutto bene colonnello. Sto ancora soffrendo per quel bambino rattrappito in braccio a una mamma supplicante, ma per il resto tutto bene”.
Stringo il mio portatessera dove ci ho infilato la medaglia che il comandante della brigata multinazionale sud-ovest mi ha regalato durante il pranzo. E’ la sua medaglia personale, con tanto di firma impressa nel bronzo. Lui se l’è guadagnata con la missione, io con la tensione di non fare scemate a tavola davanti a un generale a tre stelle sceso dall’elicottero per pranzare con me e con una tartarughina appena nata e subito appoggiata su un letto di insalata da un civilissimo colonnello inglese.
La Nissan scivola silenziosamente nel centro città passando davanti a una caserma dismessa e saccheggiata da popolazione e amministrazione locale. E pensare che gli italiani l’avevano sistemata per donarla a loro, a questi locali che faticano a edificare il futuro. “Stiamo ricostruendo” spiega l’interprete musulmana mentre passiamo davanti a un grande hotel illuminato con tanto di discoteca sotterranea. Per lei, capelli biondi e abiti di foggia occidentale, è ramadan e la fame alle nove di sera comincia a diventare indomabile.
Arriviamo nel centro storico. Legno scuro e calce bianca per le case di un piano affacciate su stradine strette. Il ristoratore ci aspetta all’ingresso. Dietro di lui un atrio splendido con fontane zampillanti, piante rigogliose e lanterne coreografiche. “Miresevini”. “Faleminderit”. Qui stasera si parla albanese e si mangia turco.
La rappresentante dell’Osce ha delle unghie bellissime, è vestita benissimo e se ne intende di tutto. Tra me e lei è seduto un ufficiale che mi sembra di conoscere, mentre la ragazza dell’Osce è convinta di avermi già visto da qualche parte. “Sei stata ospite di Porta a porta?”. Ehi, ma per chi mi hai preso, a me non mi conosce nessuno e poi io non so parlare dei meccanismi dell’universo.
Invece scopro di conoscere l’ufficiale: andava alle stesse feste di liceo dove andavo io con la mia amica. Lui su una Vespa fighissima, io e la mia amica appollaiate su un Ciao ansimante con la marmitta rotta. Bei tempi. I nostri amici grandi partivano per il Libano e noi non sapevamo neppure cosa ci andassero a fare. Vabbè, né io né l’ufficiale approfondiamo più: abbiamo già lasciato indietro il nostro passato.
La coppia di imprenditori è da invidia. Villetta in centro, attività ben avviata per lui e impegno politico per la signora che vorrebbe diventare sindaco della città. Per questo ha in programma un viaggio negli Stati Uniti dove prenderà parte a un congresso sulle cariche amministrative femminili nei paesi che aspirano all’ingresso in Europa. Figli? Sì, bene educati, studiosi, vestiti alla moda e affidati alla baby sitter.
Il marito parla un po’ di italiano. E’ molto geloso della bella moglie in tailleur pantalone bianco crema anche se non mi molla lo sguardo di dosso. Capisco subito il motivo di questa insistenza non appena mi domanda se voglio un crest con la faccia di Mussolini proprio mentre sto tentando di spegnere l’incendio della salsa di peperoni con un sorso di vino rosso ad alta gradazione. Imprenditorialità, ecco come si chiama.
Il comandante è seduto davanti a me. Le mie guance rosse sono appena più accese delle sue. “Comandante, lei ha bevuto” spara l’interprete seduta alla sua destra. Beh, a dire il vero qui abbiamo bevuto tutti tranne lei rigorosamente osservante dei suoi precetti religiosi. L’allegria sta crescendo rumorosamente, peccato per la rappresentante dell’Osce che se ne deve andare non consentendomi di chiederle cosa pensa della campagna elettorale americana. La saluto promettendole che non mi permetterò mai di rifiutare un invito di Bruno Vespa e mentre le dò la mano – accidenti a me! – le spezzo una delle sue preziose unghie.
Il discorso si sposta sulla qualità dell’alloggio. “Mi sono trovata benissimo. A proposito, chi dorme nella camera di fianco alla mia?”. Il comandante non risponde e mi versa dell’altro vino. L’argomento viene saltato a piè pari da tutti. Facciamo un brindisi. Poi applauso e consegna ufficiale di un riconoscimento alla giornalista che per una settimana ha occupato una delle quattro camere vip della base, costringendo un cappellano militare venuto apposta dal comando brigata per celebrare le cresime a ripiegare su una base più in là per la notte.
L’ufficiale addetto alla sistemazione logistica degli ospiti all’interno del compound mi chiede se ho avuto problemi durante il soggiorno. “No, è andato tutto bene”. Tranne stanotte, spiego, per il calpestio a tarda ora e la sveglia che suonava ininterrottamente al mattino presto. “Ma poi – ufficializzo – ho sentito qualcuno che entrava e cercava di spegnere quella sveglia a manate. Sentivo che gridava: cazzo! cazzo!”
Il comandante davanti a me ha gli occhi sbarrati. Gli spiego che il mio letto è appoggiato al muro divisorio delle due camere vip e che praticamente dormo a fianco dell’altro ospite separata solo dalla sottile parete del prefabbricato. “No, no – dice il comandante sghignazzando – ho provveduto a far disporre diversamente i letti”.
Mi viene da ridere mentre racconto che io di notte parlo nel sonno. E se non lo faccio nel sonno lo faccio al telefono. Quindi il mio vicino di camera potrebbe avere sentito i miei discorsi notturni mentre entrava, riposava e usciva tra un debriefing serale e il jogging all’alba annunciato dalla sveglia squillante.
Ormai il comandante non si trattiene più dal ridere e quando dico che fuori dalla porta del mio vicino ci sono delle Nike taroccate e puzzolenti inizia addirittura a lacrimare. Intanto l’ufficiale addetto agli alloggi si piega in due dalle risate e il nuovo capo della polizia militare si smarrisce nel guardare ora la mia faccia ora quella sconvolta del comandante. L’interprete fatica a tradurre il tutto velocemente all’imprenditore che ha ripreso a guardarmi fisso, stavolta con la bocca spalancata e le mani tra i capelli. No, per questa il crest con Mussolini è fuori discussione, avrà pensato.
Sì, sì, continuo io, talvolta nel dormiveglia sentivo anche qualche sberla alla parete divisoria. E la restituivo. Non tanto con l’intento di vendicarmi del sonno disturbato, ma piuttosto per trovare la posizione migliore tra un sogno e l’altro. E poi, confido, andavo in bagno solo quando sentivo che il mio vicino era già uscito. Lo sapete, questi prefabbricati non garantiscono un granché di isolamento acustico.
A questo punto tutta la mensa piangeva e rideva e sudava. L’imprenditore aveva gettato la spugna rinunciando a capire quello che stava succedendo a questi pazzi italiani, la moglie si asciugava il mascara che le colava dagli occhi e l’interprete tirava il braccio del comandante ormai riverso sul tavolo singhiozzando di risate. Mentre a me cominciava a venire qualche sospetto. “Ma insomma, posso sapere chi ha dormito al mio fianco questa settimana?”. E il comandante tra le lacrime: “Io, ma questo non lo scriva per favore!”