pubblicato da Pagine di Difesa il 4 dicembre 2004
Ramush Haradinaj, ex leader dell’esercito di liberazione del Kosovo (Kla) e vincitore di nove seggi con il suo partito Alleanza per il futuro del Kosovo (Aak) alle elezioni di ottobre, è stato eletto primo ministro dalla Assemblea del Kosovo. L’Assemblea, che conta 120 rappresentanti, si è espressa a favore di Haradinaj con 72 voti favorevoli e tre contrari. Nella stessa seduta Ibrahim Rugova è stato confermato alla presidenza.
Quando la voce di una possibile elezione di Haradinaj venne diffusa lo scorso 19 novembre, provocando preoccupazione a occidente e rabbia a Belgrado, l’ufficio del procuratore del tribunale penale internazionale Carla Del Ponte comunicò l’impegno investigativo a carico di “un vecchio leader del Kla” senza aggiungere altri dettagli. Ma che il giovane Ramush – 36 anni – venisse ricercato dalla Del Ponte venuta apposta per lui da Bruxelles non era più un mistero.
Haradinaj fu interrogato due volte nella seconda settimana di novembre in merito ai crimini di guerra verificatisi in Kosovo. Potrebbe essere presto accusato dal tribunale dell’Aja per presunte atrocità condotte contro le forze serbe durante la guerra del 1998-1999.
Soren Jessen-Petersen, governatore dell’amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite, commentò la voce di un possibile Haradinaj primo ministro affermando: “Dire di no a questo candidato è dire di no alla democrazia”. La dichiarazione relativa alla candidatura a primo ministro del Kosovo di Ramush Haradinaj, rilasciata lo scorso 17 novembre, provocò invece una ferma reazione da parte del presidente serbo Boris Tadic.
“E’ assolutamente inaccettabile – commentò Tadic prendendo duramente le distanze dal governatore Unmik nel corso di una trasmissione televisiva – non saremmo arrivati a questo se i serbi avessero votato”. Lo scorso 23 ottobre i serbi di fatto boicottarono le urne nel tentativo di rendere pubblica la mancanza di tutela dei diritti umani fondamentali sofferta dalla minoranza serba in Kosovo.
A Javier Solana, capo della politica estera europea, Haradinaj non sembra la persona più appropriata per portare il Kosovo allo status finale. Eppure, eletto primo ministro, l’ex leader del Kla parteciperà ai colloqui previsti per la metà del prossimo anno discutendo di democrazia e di legalità. Per questo Haradinaj di Glodjane si è impegnato a siglare una coalizione con il partito di maggioranza del presidente Ibrahim Rugova.
Ma c’è di più. Se Haradinaj – una volta insediatosi – venisse chiamato dal tribunale penale internazionale dell’Aja, il Kosovo resterebbe senza primo ministro con conseguente destabilizzazione della regione e forse anche dei paesi limitrofi.
Nel timore del verificarsi di disordini, come è successo lo scorso 17 marzo a danno della minoranza serba, la Nato ha previsto un miglior equipaggiamento per i 17.500 peacekeepers presenti in Kosovo. Non ci saranno aumenti del personale impiegato nella regione, ma – da quanto riporta l’agenzia Reuters da Bruxelles – si prende atto delle lamentele dei comandanti circa le restrizioni che hanno limitato la capacità di reazione ai precedenti scontri.
Secondo fonti Nato l’apparato di intelligence è stato potenziato in vista di un possibile nuovo scoppio di violenza, soprattutto nel caso in cui Haradinaj venga convocato dal tribunale dell’Aja.
Il rischio di nuovi scontri si delinea a circa un mese dalle elezioni che hanno riacceso nella maggioranza albanese la voglia di indipendenza. La sicurezza della popolazione serba, secondo il ministro della Difesa inglese Geoffrey Hoon a colloquio con il primo ministro serbo Vojislav Kostunica, sarebbe il problema più grande, mentre rimane urgente la definizione del rientro dei profughi serbi.
Uno scoppio di violenza potrebbe verificarsi anche al di fuori dai confini del Kosovo. Secondo Violeta Matovic, direttore della Commissione nazionale serba per la lotta contro il terrorismo, la popolazione sarebbe del tutto impreparata: “Non è stato sviluppato un piano per la popolazione nel caso di attacco terroristico”.
Obiettivo degli attentati, che potrebbero essere condotti da terroristi albanesi provenienti dal Kosovo, sarebbero le città della Serbia centrale dove ancora si rifugiano profughi serbi. Se così fosse, i disordini si estenderebbero davvero oltre la regione amministrata dall’Onu.