Nov 14, 2004
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Kosovo, la lunga strada verso L’Occidente

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pubblicato da Pagine di Difesa il 14 novembre 2004

decani_2004Camminando nella notte lungo la strada che da Rznic porta a Glodjane arrivano sul viso folate d’aria calda profumate di fieno. E’ l’inizio di novembre e il caldo adesso è strano e inusuale. “Questa è una terra di contraddizioni” aveva avvisato il tenente Francesco Di Pierro.

A pochi chilometri ecco il primo evidente contrasto. Ripreso il cammino a bordo di un Vm, il mezzo utilizzato per l’attività di pattuglia, dopo un paio di curve a gomito compare il mausoleo dell’Uck (Esercito per la liberazione del Kosovo). E’ illuminato a giorno in una notte nero pece tra poche case dove la corrente elettrica arriva a singhiozzo. Questo è il paese della famiglia Haradinaj, qui Ramush si è costruito una villa a forma di castello. Dopo un passato di comandante dell’Uck è diventato un leader politico. Il suo partito, l’Aak (Alleanza per il futuro del Kosovo), ha ottenuto qui il maggior numero di voti di tutta l’area del Kosovo.

Sulle strade del feudo di Haradinaj sfrecciano spesso auto di lusso. Una grossa mercedes con targa italiana sembra una nota stonata tra i trattori tirati dai muli e i cani che corrono lungo la strada. Non ci sono problemi per il rifornimento di carburante perché tra Decani e Giacova-Dakovica si susseguono stazioni di servizio addirittura più lucide di quelle svizzere, anche se in mezzo alla polvere che sale dalla strada.

I bambini salutano volentieri i militari italiani che rispondono con un sorriso. In quest’area il tricolore è molto amato dalla popolazione. “Io voto Italia – dicevano alcuni albanesi a Giacova-Dakovica prima del 23 ottobre – perché è l’Italia che mi dà tutto”. Eppure al medesimo tempo vogliono l’indipendenza per il Kosovo che dal 1999 è amministrato ad interim dalle Nazioni Unite.

Gli albanesi, che sono la maggioranza, sono andati a votare. Loro sì, a differenza dei serbi che hanno disertato le urne disgustati dalla mancanza di risultati sul piano della tutela delle minoranze. “Lo schiavo per votare deve essere liberato” ha sentenziato un monaco di Decani, seguendo le direttive di astensione date dalla chiesa serbo-ortodossa. Ma il boicottaggio dei serbi ha avuto come conseguenza la perdita di rappresentanza in Parlamento e una scarsa sensibilizzazione dell’opinione pubblica. I serbi restano minoritari e senza voce.

Intanto la disoccupazione si attesta a percentuali tra il 70 e il 75%. L’economia non riparte e la pensione di anzianità è di 40 euro al mese. Un docente universitario guadagna quasi il quadruplo. Tutti gli altri, se lavorano, stanno in mezzo. Qui il pane costa 30 centesimi di euro al chilo e il latte tra i 60 e gli 80 centesimi al litro.

In questo scenario la criminalità è un rischio concreto. L’attività del Cimic (cooperazione civile-militare) punta tutto sui giovani per tentare una integrazione delle etnie. Feste multietniche, corsi di approfondimento culturale e iniziative di carattere sportivo. Sembra funzionare, ma il rientro periodico delle salme degli albanesi rinnova dolori e rancori.

In marzo si sono verificati disordini del tutto inattesi. Una cinquantina di focolai di rivolta sono scoppiati contemporaneamente in tutta la regione, lasciando sul campo 19 morti e 150 tra chiese e monasteri ortodossi completamente distrutti. Abitazioni date alle fiamme, tombe dissacrate e di nuovo civili in fuga. Se nel ’99 erano gli albanesi a scappare, oggi sono i serbi.

Per tutelare il patrimonio artistico e religioso della minoranza, il generale Danilo Errico ha introdotto il concetto delle zone dove è concesso ai militari l’uso delle armi in caso di attacco. Le uniche due zone, definite restricted area, presenti nell’area di responsabilità del contingente italiano sono il monastero di Decani e il patriarcato di Pec-Peja. Se le truppe di Kfor dovessero andarsene, togliendo i loro check-point e i veicoli Dardo dagli ingressi, anche questi gioielli verrebbero con ogni probabilità distrutti.

“E’ un conflitto culturale, non tanto religioso o etnico”. Il sindaco della enclave di Goradzevac si dice sicuro di questo. A maggior ragione qualcuno dovrà prendersi cura di questi oggetti di culto e cultura che incarnano l’identità del popolo serbo e che proprio per questo vengono presi di mira da una maggioranza genericamente priva di una propria identità.

Per ovviare al senso di disorientamento intervengono alcune organizzazioni non governative impegnate nel recupero delle kula (abitazioni in pietra tipiche di questa regione) e nella costruzione di moschee. A Junik, un paese a sud-ovest di Decani, ce ne sono quattro, di cui una è destinata a diventare un centro islamico. E’ talmente grande che da sola potrebbe contenere tutti gli abitanti del paese.

La maggior parte degli islamici dei Balcani non è praticante. Gli anni di Tito hanno contribuito a diffondere un certo sopore nei confronti delle pratiche religiose. Ma la moschea è anche un luogo di ritrovo, dove ci si incontra e ci si confronta.

Nell’area tra Prizren e Pec-Peja si possono ascoltare inni cantati in strada da musulmani mai visti prima. Un imam interrogato in proposito confessa che ci sono persone pagate per girare vestite in foggia islamica e chiamare alla preghiera in moschea.

Se l’islam integralista ha progettato di entrare in Europa, allora il Kosovo fa al caso suo. Usando le moschee come centri di propaganda per una infiltrazione politica dal basso, l’integralismo potrebbe validamente attuare una islamizzazione che dalla base arriva ai vertici del potere. Seguendo un movimento opposto a quello del fondamentalismo, che invece si impone dall’alto e che in Europa non avrebbe possibilità di successo. Con il rischio di rompere quei sottili equilibri rispettati anche dal silenzio del Tribunale penale internazionale ormai sulle orme di Ramush Haradinaj.

Il Kosovo potrebbe allora diventare la base operativa dell’integralismo islamico in Europa, complici la mancanza di lavoro, il diffuso atteggiamento di attesa inoperosa e la voglia di occidente. “Noi siamo occidente” sostiene una ragazza musulmana. Ma forse il concetto non è chiaro a tutti, perché se da una parte molti giovani cominciano a capire l’importanza di farsi una base culturale (solo dopo la guerra si sono avute le prime donne diplomate in istituti superiori) dall’altra persistono rassegnazione e fatalismo.

Se la Kfor se ne andasse i primi a rimetterci sarebbero gli albanesi. Distrutto quel che resta dei serbi, i pochi che hanno la spinta imprenditoriale e la volontà di costruire un futuro concreto per entrare in Europa verrebbero travolti dal disorientamento dei più, che continuano ad attendere aiuti dall’esterno e rimangono nella loro disoccupazione dividendosi tra moschea e internet point.

All’Europa non conviene disinteressarsi del Kosovo. Questa è una terra di contraddizioni e la pace apparente che prima di marzo aveva indotto a una smobilitazione delle truppe è una dimostrazione di quello che l’intelligence non ha colto. Anche ammesso che si trattasse di una mossa degli albanesi per non perdere visibilità.

Foto: materiale proprio

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2004 · Forze Armate · Kosovo · past papers · Serbia